Le ragioni del NO

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Il testo dell’intervento effettuato da Gianluigi Placella, Presidente della Sezione Anpi 7 Martiri di Venezia, in occasione del dibattito “Le ragioni del No: oltre gli slogan”, organizzato sabato 1 ottobre dal Comitato metropolitano per il No in Piazzetta Pellicani a Mestre:

Stasera, forse, qualcuno o molti avrebbero preferito il confronto.
Io al riguardo dico due cose.
La prima: c’è una tale sproporzione tra gli spazi comunicativi di cui gode sui media lo schieramento del SI’ rispetto a quello del NO, che in questi ultimi due mesi bisogna sfruttare tutte le occasioni per esporre i nostri argomenti.
La seconda cosa è che si può argomentare con i dati più oggettivi, ma chi ha già deciso da che parte stare, non li prenderà in considerazione.
Pertanto credo che l’obiettivo, il target delle nostre comunicazioni, deve essere quel gran numero di cittadini che, o perché sfiduciati o perché confusi, non hanno ancora deciso.
Noi dell’Anpi, peraltro, vediamo in questo referendum l’occasione per riprenderci la nostra dignità di cittadini che non vogliono essere sudditi di stati stranieri, europei e non, come pure della finanza internazionale.
Il voto sarà un momento in cui potremo rimarcare il rispetto dovuto ai componenti della società che la Costituzione vuole sovrani.
Lo stesso Presidente Mattarella, qualche giorno fa, citando le interconnesioni pur inevitabili tra Stati ed interessi economici del mondo odierno, ha scandito parole chiare dicendo: “Naturalmente questa considerazione non muta in nulla il fatto che la sovranità sia demandata agli elettori».
L’Anpi, stasera, quindi, intende rivolgersi a chi si avvicina alla scelta, al quesito, senza una fede precostituita, senza un interesse personale o di categoria da far difendere al governo di turno, perché è molto evidente che, quanti dalla situazione attuale traggono vantaggi (la Salini Impregilo che si vede prospettare la costruzione del ponte di Messina?), non gradiscono l’eventualità di un cambio di rotta.
Ecco allora che, difendere la Costituzione da una trasformazione così radicale, significa difendere il diritto in generale e non l’interesse particolare.
Certo, ci si può far notare che attiene all’interesse generale anche non rischiare l’incognita di un nuovo governo, ma, noi del NO, non vogliamo essere accusati di ostacolare il nuovo e quindi difendiamo più volentieri la Costituzione, perché questa garantisce ancora una repubblica parlamentare e, quindi, ci tranquillizza sul futuro di governo in Italia.
Non neghiamo che dietro alle ragioni del SI’, dietro a questi cambiamenti della Costituzione, ci sia un progetto, ritenuto coerente, di una armonizzazione delle istanze locali con le attività di governo ed il contemporaneo risultato di una riduzione dei costi e di una sempificazione procedurale.
Chi come noi sostiene il NO, vede un’altro progetto. Oppure delle altre conseguenze, dato che la combinazione di queste modifiche, crea difficoltà interpretative e riduzione della sovranità popolare che prevedono che l’esecutivo sbrogli con autorità tali situazioni; e dall’autorità all’autoritarismo il passo è breve. Invece una Costituzione che deve valere anche per il domani, non può lasciare sul campo questa preoccupazione o creare spazi dove, quei malintenzionati che oggi non vediamo, possano infiltrarsi. Si dice che non vengono toccati pesi e contrappesi, che non si riduce la democrazia, ma il nuovo art. 64 che prevede che lo statuto delle opposizioni della Camera sarà delegato alla Camera, cioè dalla maggioranza, sembra la prova del contrario.
Gli argomenti che vogliono convincere a votare Sì sono tanti: la palude dell’immobilismo, l’ingovernabilità, le preoccupazioni degli investitori, l’economia, la destra che incalza, la velocità della società moderna. Ci sentiamo dire: Siamo nel 2016! L’Italia e il mondo non sono quelli di settant’anni fa!
Ma l’America è forse ancora quella del 1787, quando si diede la sua Costituzione?
Allora che argomento è?
Io dico con l’Anpi, che nessuno di questi è un motivo sufficiente per subordinare, a loro, le sorti della nostra Costituzione.
Consideriamo perciò incomprensibile e gravemente irresponsabile, la posizione di tanti sostenitori del SI’ che, mentre elencano i difetti di questa legge, dichiarano che la voteranno perché è meglio di niente! Una dichiarazione di finto buon senso veramente pericolosa.
E’ proprio la robustezza di questa Costituzione che, invece ci ha difeso dagli assalti dell’eversione nera, rossa e consociata.
E’ proprio lei che ci ha salvato dai tentativi di stravolgimento di Berlusconi.
Ricordiamo a tutti che, anche allora, l’ANPI scese in campo a fianco dei partiti democratici contro quel progetto e nessuno obiettò che ciò non le competesse.
La nostra è una Costituzione in grado di difenderci da guerre e da assalti della criminalità organizzata se solo ci si decidesse ad applicarla in pieno, invece di volerla periodicamente cambiare per necessità contingenti e strategie di parte che niente hanno a che fare con gli interessi della comunità.
Trattarla perciò come merce di scambio per le dinamiche di governo o peggio ancora per le beghe di partito significa restare dalla parte dei pochi e non del popolo sovrano.
Questo già accadde nel 2001, si tentò nel 2006 e si tenta ancora oggi.
Quando parlo di interessi di parte, mi riferisco anche all’intrecciarsi della sua sorte con la legge elettorale Italicum; questo legame viene certificato oggi dalla decisione della Corte Costituzionale di rinviarne il giudizio di legittimità a dopo il pronunciamento popolare sulla legge di modifica della Costituzione.
Questa idea dello scambio nel sostegno alle due leggi, se vogliamo presupporre la buona fede, è assurda ed inutile: infatti i difetti della cosiddetta riforma costituzionale sono tanti, indipendentemente dagli aggravi che l’Italicum produce.
Modificare l’Italicum non correggerebbe le stranezze, le insufficienze, i pericoli contenuti nella prima.
Peggio ancora se lo scambio presuppone un disegno utilitaristico: in questo caso dimostra scarsa sensibilità verso la comunità: infatti si antepongono le ragioni di equilibrio di partito alle ragioni di equità su cui la Costituzione, che vale per tutti, è fondata.
Senza contare poi che, questo agitarsi da più parti per la modifica dell’Italicum, è, a ben vedere, le sconfessione di una linea: la legge “ottima”, la legge da votare al buio senza necessità di approfondimenti o discussione, la legge da votare senza emendamenti, viene improvvisamente riconosciuta inadatta e da trasformare.
Se aggiungiamo il fatto che essa è stata approvata col voto di fiducia, la spigliatezza di questo cambio di posizione dà da pensare (ma magari per molti è un segnale di grande capacità politica).
Rifacendoci al caso in questione, questa inversione ad “U” ci preoccupa; il voto di fiducia significa infatti: lasciamo perdere le discussioni tra favorevoli e contrari, fidatevi, è una legge “ottima” anche per il futuro, al punto che è applicabile fra 14 mesi.
Oggi allora ci domandiamo: che cosa resta di quel voto dato al buio se, fatta finalmente luce su quel buio, si vede che la legge non era affatto “ottima” ed intoccabile?
E la fiducia, era forse mal riposta?
Cosa resta dei mesi di lavoro che hanno sequestrato le attività dei parlamentari distolti da altri gravissimi problemi come l’economia, le migrazioni, le guerre, le missioni di pace e di consulenza militare? Una domanda che richiama l’accusa del ministro, a chi è intenzionato a votare NO, di fare offesa al parlamento per il fatto che si azzerano due anni di lavori.
Pensare che l’Anpi sia contro il governo è una deduzione errata che deriva dalla impostazione personalistica data all’inizio di questa campagna dal Presidente del Consiglio sostenuta dall’allarmismo a comando di troppi mezzi di informazione, con la paura indotta della paralisi, in caso di vittoria del NO e agitando lo spettro di un governo a guida Salvini o Grillo.
Ma pensiamoci un momento: questa preoccupazione avrebbe fondamento in una repubblica presidenziale, non nel nostro sistema che prevede una repubblica parlamentare; infatti da noi, secondo la solita, buona, vecchia Costituzione, finché il governo mantiene la fiducia del Parlamento, continua il suo lavoro. E’ il Parlamento la garanzia della rappresentanza della volontà del cittadino, più che il primo ministro incaricato a tempo.
Un altro motivo di preoccupazione di questa forzatura allarmistica è che adombra un’idea del Parlamento subalterno all’esecutivo.
Allo stesso genere di forzatura appartengono i sorprendenti annunci inerenti ad un’espansione del terrorismo dell’Isis che approfitterebbe della debolezza che deriva ai governi da questa forma Costituzionale; oppure il sensazionalismo di prospettare impennate del Pil per effetto di questa accelerazione riformista.
Oggi, finalmente, questa impostazione è stata saggiamente modificata dallo stesso primo ministro togliendo così sostanza ad una polemica artificiosa e richiamando le discussioni al merito della cosiddetta riforma.
Veniamo perciò a parlare del merito che, per i sostenitori del SI’, significa sostanzialmente che abbiamo l’opportunità di cambiare il Paese. Un enorme cambiamento è vero, ma in quale direzione ?
Noi vediamo, chiara, la direzione indicata da un condannato in primo grado per corruzione ed imputato in altri quattro processi, Verdini, che poi, è come dire Berlusconi, pregiudicato per frode fiscale, reato gravissimo contro lo Stato; che è come dire dell’Utri, pregiudicato per concorso esterno in associazione mafiosa che con lui condivideva gli interessi della mafia siciliana.
Per quanto si voglia essere pragmatici o ammiratori del cinismo da machiavelli, o finanche della ragion di Stato, di sicuro non si può riconoscere, in tali figure, il profilo ideale di un Padre Costituente.
Concedetemi di fare ancora un richiamo a due questioni fondamentali.
1. Il Parlamento che ha approvato il testo che modifica un terzo della Costituzione, è falsato nella sua rappresentatività, dai meccanismi premianti di una legge elettorale dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale; questa si è peraltro premurata di indicare le priorità che, per una Camera dai poteri in tal modo sminuiti, dovevano essere essenzialmente la realizzazione di una nuova legge elettorale e di provvedimenti necessari alle scadenze di ordinaria amministrazione.
2. La maggior parte dei parlamentari che hanno approvato questa cosiddetta riforma è stata scelta dagli elettori sulla base di un impegno del loro segretario di allora, Pierluigi Bersani a rafforzare le procedure di modifiche della Costituzione nel senso di renderle possibili solo con la maggioranza qualificata dei due terzi; a quel voto doveva comunque seguire conferma popolare col referendum.
Le parole dell’allora segretario erano chiare ed impegnative. E’ interessante leggerle:
“Occorre certamente difendere la Costituzione da incursioni “di parte”, (come voi dite). Pertanto credo anche io che occorra elevare in misura assai considerevole la maggioranza necessaria per l’approvazione parlamentare delle leggi di revisione e soprattutto che sia opportuno riconoscere ai cittadini il potere di richiedere in ogni caso il referendum confermativo.[…]
Non c’è per me alcuna possibilità di differenziare la Prima dalla Seconda parte della Costituzione. La Seconda parte non è che la esplicitazione dei valori contenuti nella prima ed è evidente che attraverso la manipolazione della Seconda parte si possono ledere i valori fondamentali espressi dalla Prima.
I nostri gruppi parlamentari e il governo si muoveranno in questa direzione con appositi progetti di legge. Voglio solo aggiungere che le mie opinioni sulla materia (che mi avete cortesemente sottoposto) non sono frutto di estemporanee valutazioni, ma di riflessioni che complessivamente appartengono alla elaborazione del Partito Democratico e dei suoi organismi.”
Parole che l’Anpi condivide ancora oggi.
Ma è del tutto evidente, allora, che la maggior parte di quegli eletti si sono prestati ad un progetto completamente opposto.
Ricordiamo che non è una coincidenza che, il padrino di questa legge, il senatore Napolitano, 3 anni fa era il sostenitore dello stravolgimento dell’articolo 138.
Anche in quei tormentati passaggi, tanti parlamentari eletti per difendere quell’articolo, non si opposero.
In conclusione, il 4 dicembre ci troveremo per l’ennesima volta a votare al buio, sulla fiducia, visto che molti passaggi non sono normati.
Ma se permettete, fiducia per fiducia, noi continueremo ad averne ancora molta di più nella statura e nel senso dello Stato dei nostri veri, grandi, padri costituenti.
Un ultimo argomento.
Abbiamo accettato per 10 anni di servirci di una legge elettorale che lo stesso ideatore ha definito una porcata per cui da allora ha preso il nome di Porcellum.
Un maestro del pensiero locale ha definito questa riforma costituzionale una “puttanata”.
Lascio a voi pensare, nel caso della vittoria del Sì, come da quel giorno in poi potrà essere denominata la nostra Costituzione.
Basterebbe solo questo sfregio al sangue dei partigiani morti per convincere tutti a votare NO.

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Repressione in Val di Susa

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Una lettera da casa di Nicoletta Dosio, pubblichiamo:

Sono arrivati, all’alba, con la notifica dei domiciliari.
Il latrare di Argo al cancello, la mia casa nel disordine del primo mattino, il tuffo al cuore inevitabile anche quando sei preparata e ti aspetti gli eventi, il senso della tua intimità violata.
Domiciliari che non rispetterò, come non ho rispettato l’obbligo di firma quotidiana e l’obbligo di dimora.
Il conflitto contro ‘ingiustizia è un diritto e un dovere.
La mia casa non è una prigione; non sarò la carceriera di me stessa.
Mi sento serena e sicura.
La loro legalità ha più che mai il volto della guerra e dell’oppressione.
La nostra lotta è un cuore pulsante e generoso, un pensiero lucido e saggio, bella e struggente come i cieli autunnali, dolce come le albe che rinascono, concreta e generosa come la terra.
Sento intorno a me il sostegno di compagne e compagni, la solidarietà concreta di una Valle che continua a resistere ed a costruire l’idea di un futuro più giusto e vivibile per tutti.
Ho ancora in me l’emozione e la ricchezza dei tanti incontri avuti durante le settimane del NOTAVTour “io sto con chi resiste”.
Non è preoccupazione, ma una calma gioiosa quella che provo.
Questa sera sarò all’assemblea organizzata a Bussoleno a sostegno della Resistenza Kurda e del PKK.
L’importante è rimanere umani, ossia, come ci dice Rosa Luxemburg in una sua lettera dal carcere, “rimanere saldi e chiari e sereni, sì sereni nonostante tutto. Rimanere umani significa gettare con gioia la propria vita sulla grande bilancia del destino, quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola”.

Liberi tutte e tutti!
Avanti NO TAV!

da www.tgvallesusa.it

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Il coraggio di dire no

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Eccidio di Casalecchio di Casalecchio di Reno. 10 ottobre 1944.

Ho cercato una fotografia che ogni volta la vedo mi provoca dolore, e mi fa piangere… Tutto dopo aver visto la signorina Boschi che in televisione (visto poi che in televisione ci van solo loro del sì per la deforma costituzionale, che quelli del NO si devono fare controinformazione da soli) che ridacchiando asseriva che è facile votare per il NO… (prossimo referendum Costituzionale) ma che invece votare per il si ci vuole coraggio perché con il coraggio si cambia l’Italia. Ed allora mi è venuta in mente questa foto, e mi domando se la signorina Boschi sappia che cosa vuol dire coraggio.??? Coraggio di morire straziati dal fascismo, morire di fame e di terrore, torturati e impiccati, fucilati e gasati nei campi di concentramento, stuprate e uccise, morti di freddo e di lavoro… Coraggio di Resistere. Stamattina ero ad una manifestazione in ricordo di una battaglia che durò due giorni tra le montagne dell’Oltrepò Pavese… Li morirono tanti Partigiani, tra cui un ragazzino di quindici anni che con il suo corpo fermo l’avanzare dei fascisti e dei nazisti verso la conquista delle vette delle montagne. I contadini corsero alla battaglia con i loro fucili da caccia,  le donne portarono un bicchiere di vino e un pezzo di pane a chi combatteva, mentre le loro case e le loro poche cose venivano date al fuoco dai fascisti… Ecco Signorina Boschi io penso che questo sia il coraggio! Che questa gente ci ha consegnato la Costituzione, che loro, soltanto loro dovremo ascoltare, il cuore, la carne, l’anima… non di certo il proprio egoismo, i padroni del vapore, i servitori, i maggiordomi. Ascolti la gente, loro sanno che cosa è il coraggio di vivere, oggi come allora…! E sento Calamandrei che ancora ci ricorda… “Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa Costituzione! Dietro a ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti.
Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione.” IO signorina Boschi conosco il coraggio, me l’hanno insegnato i miei Partigiani e voterò NO a chi vuol cambiare il loro testamento, la Costituzione Italiana.

Ivano Tajetti

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Malga Zonta 2016: l’antifascismo non è mai una ricorrenza, ma costante Resistenza!

Schio, funerali dei partigiani dopo la Liberazione

Schio, funerali dei partigiani dopo la Liberazione

Il 10 agosto è stata definitivamente revocata la “medaglia della liberazione” conferita lo scorso aprile a Valentino Bortoloso “Teppa” e ad altrettanti partigiani/e vicentini/e che parteciparono alla lotta armata contro il nazi-fascismo.

“Teppa”, è l’ultimo partigiano ancora vivente che ha fatto parte del commando che il 7 luglio del 1545 mise in atto il cosiddetto “eccidio” di Schio, entrando nelle allora carceri mandamentali scledensi e compiendo un gesto di “giustizia popolare” nei confronti di quei fascisti incarcerati dopo la fine della guerra mondiale. Fu un’azione valutata sulla base di specifiche e delicate contingenze: infatti, il sentore comune era che i personaggi che avevano sostenuto il regime fascista, ricoprendo ruoli di rilievo durante il ventennio, sarebbero ben presto tornati in libertà, riacquisendo i prestigi goduti col sangue in epoca passata.

Fu in questo senso che un gruppo di partigiani, che durante la resistenza aveva conosciuto e toccato con mano le barbarie dell’oppressore, decise di farsi giustizia da sé, senza aspettare l’intervento delle istituzioni. Quello contro “Teppa” è solo uno dei tanti attacchi portati avanti dai revisionisti nel corso degli anni, in cui vediamo esponenti di destra e di sinistra muoversi coesi nel processo di smembramento di un movimento unitario come la Resistenza. Dividere i partigiani in buoni e cattivi ha il chiaro obiettivo di depotenziare l’esperienza della lotta antifascista e spogliarla della sua natura rivoluzionaria.

A togliere in via ufficiale la medaglia è stato il ministro della difesa Pinotti del partito democratico su richiesta del sindaco di Schio Valter Orsi, che non ha esitato a sfruttare la situazione per lanciare l’ennesima crociata contro la memoria storica antifascista. La sua stessa presenza qui oggi non è altro che una provocazione, che palesa come per le istituzioni i concetti di resistenza e antifascismo non abbiano alcun senso e valore dal momento che, a intervenire alla cerimonia commemorativa di malga Zonta, è lo stesso sindaco che il 3 agosto scorso ha mobilitato l’intera cittadinanza in una manifestazione contro l’accoglienza al profughi, iniziativa che ha visto l’ampia partecipazione e il sostegno dello scenario dell’estrema destra veneta, dai “vecchi” gruppi politici come lega nord e casa pound, fino al più recenti comitati territoriali di uguale stampo fascista.

Se da una lato quindi la destra aizza alla reazione, dall’altro lato la “sinistra” al governo riduce a brandelli i valori nati dalla Resistenza e perpetra lo sfruttamento su tutti i fronti: da quello del cortile di casa con privatizzazioni e tagli allo stato sociale e ai diritti più basilari, al fronte esterno della guerra che portiamo in casa d’altri. L’Italia che, sulla carta, dovrebbe ripudiare la guerra è invece in prima linea in missioni militari internazionali, da ultimo il sostegno con forze speciali d’addestramento e attraverso la messa a disposizione delle basi logistiche per rendere possibili i bombardamenti contro la Libia in funzione anti Isis, ma in realtà dettati dall’esigenza di difendere gli interessi economici che gravitano attorno al nord Africa.

In un momento in cui il revisionismo e lo sdoganamento dell’estrema destra sono funzionali a mantenere la pace sociale e a scoraggiare l’insorgere di qualsiasi dissenso l’antifascismo è un’attitudine che va praticata quotidianamente con tutte le forme necessarie!

Contro chi vuol riscrivere il passato per dominare il presente contro la guerra e l’imperialismo ORA E SEMPRE RESISTENZA!

Antifa Schio, Malga Zonta 15 agosto 2016

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Mario Bernardo “Girare con Pasolini”

 

bernardoÈ fresco di stampa il bel libro, edito da Sedizioni (Mergozzo, Piemonte), Girare con Pasolini. Ne è autore il cineasta, fotografo e docente Mario Bernardo, che con memoria ancora lucidissima ripercorre l’esperienza maturata al fianco di Pasolini durante le riprese di una parte del documentario Comizi d’amore e poi di Uccellacci e uccellini, opere in cui Bernardo fu direttore della fotografia. Bernardo, che tra l’altro è quasi coetaneo di Pasolini, essendo nato nel 1919, è «un artista della luce ma anche un ritrattista», come scrive nella Postfazione il regista Vanni Vallino. Nel libro di ricordi, infatti, si delinea anche una mappa umana dell’Italia perduta degli anni Sessanta, povera ma bella, attraversata da un boom economico già in via di stingimento. Ma soprattutto spicca un ritratto originale di Pasolini, guardato dal suo “fotografo”, anche a tanti anni di distanza, con indipendenza di giudizio, tra stupore e ammirazione. Da menzionare che in settembre, a Novara, Casa Bossi, l’attore Marco Morellini proporrà in prima nazionale un monologo teatrale ricavato proprio dal libro di ricordi di Bernardo.

Partimmo una mattina soleggiata di luglio, non troppo presto. Pasolini mi attese a Porta S. Giovanni dove arrivai con un mezzo qualunque. Caricai i miei attrezzi e qualche ‘straccio’ per potermi cambiare in quanto, già essendo caldo a Roma, peggio sarebbe stato a Messina o a Palermo.
Il regista non era corrucciato, come spesso. Una nuova avventura e il lavoro lo trasformavano sempre. Era allegro, tutto sommato. Guidò tranquillo fino in periferia senza aprire mai bocca sino al Tirreno.
La giornata era splendida come solo nel Sud d’Italia. Legioni di bagnanti si rinfrescavano lungo la battigia con fare ozioso. Li vedevo oltre il ciglio della carreggiata, ne sentivo le grida ed il vociare tipico della spiaggia. “Chissà, disse ad un tratto Pasolini, se questa gente saprà mai cosa facciamo, o stiamo noi per fare, o faremo domani? Speriamo che le nostre non siano solo immagini e parole buttate al vento”

Un artista della luce ma anche un ritrattista perché l’immagine dell’Italia che Mario descrive è reale, povera ma bella, attraversata da un boom economico che forse già si stava spegnendo: personaggi emergono da sud a nord e ci accompagnano nei paesaggi dove ritroviamo situazioni e circostanze che fanno parte della storia del nostro Paese. (dalla postfazione di Vanni Vallino)

Mario Bernardo nato a Venezia il 22 febbraio del 1919, è partigiano garibaldino con il nome di battaglia “Radiosa Aurora”. Direttore della fotografia ha collaborato con numerosi registi; per Pasolini ha firmato le immagini dei Comizi d’amore e di Uccellacci e Uccellini.

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Mario Bernardo “Radiosa Aurora” (foto di R. Solari)

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Lettera di Bilal Kayed dal carcere al 48 ° giorno di sciopero: “le vostre lotte mi danno più determinazione per la vittoria”

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Il prigioniero palestinese Bilal Kayed, nel suo giorno 48 ° di sciopero della fame, oggi, dall’interno del Barzilai Hospital dov’è ammanettato mano e piede al suo letto, ha scritto la lettera che segue. Kayed ha 34 anni e ha iniziato lo sciopero della fame il 15 giugno.
Il suo rilascio era stato previsto il 13 giugno, dopo aver scontato una condanna di 14 anni e sei mesi nelle prigioni israeliane. Invece di essere rilasciato come da programma, tuttavia, gli sono stati inflitti altri sei mesi di detenzione amministrativa senza accusa né processo rinnovabile a tempo indeterminato.
Immediatamente, Kayed, ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro questo pericoloso precedente per tutti i prigionieri palestinesi, uno sciopero sostenuto dai suoi compagni di sinistra appartenenti al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e da partiti e movimenti dei prigionieri palestinesi. Oltre 100 compagni prigionieri palestinesi si sono uniti ad uno sciopero collettivo della fame per la libertà di Kayed, tra i militanti del FPLP c’è il segretario generale Ahmad Sa’adat, Ghassan Zawahreh e Shadi Ma’ali, Mohammed Abu Sakha, artista circense e insegnante, Hassan Karajan delle organizzazioni giovanili, e molti altri. Altre centinaia si sono uniti in una serie di proteste collettive per la liberazione di Kayed, organizzando scioperi della fame e proteste rispondendo all’appello; i prigionieri sono stati colpiti da raid, trasferimenti di massa, divieti di visite familiari, isolamento e altre sanzioni, nel tentativo di boicottare la loro protesta collettiva.
Oltre 170 organizzazioni internazionali e palestinesi hanno firmato l’appello per la libertà di Kayed, e le dimostrazioni sono in crescita in tutta la Palestina e nel mondo. Samidoun, Network di solidarietà con i prigionieri palestinesi, riporta di seguito le parole di Kayed: “Ciò che ho ricevuto da voi attraverso le lotte, i sit-in, le vostre manifestazioni, mi dà più determinazione per proseguire fino alla vittoria. In entrambi i casi la libertà o il martirio”.
Samidoun, in questo momento critico della lotta, sollecita un aumento delle manifestazioni, delle azioni a sostegno di Bilal Kayed e dei suoi compagni in carcere.

Al mio eroico popolo palestinese…

Alle persone libere del mondo…

In questa difficile fase che sto sopportando a livello personale, mentre lotto contro chi cerca di obbligarmi a sottomettermi alla brutale occupazione, che ha deciso di liquidarmi, per il solo fatto di essermi schierato a fianco ai prigionieri del mio popolo, difendendo i miei diritti, i loro diritti e quelli delle loro famiglie a raggiungere le condizioni basilari per la dignità umana. Non è strano che io sia supportato da tutto il mio popolo che mi circonda con le sue grida e invocazioni, il suo sostegno e gli sforzi instancabili per cancellare l’ingiusta condanna che è stata inflitta a me e agli altri prigionieri. Ciò avviene con la solidarietà nazionale, con cui sono cresciuto, che mi è offerta da voi, dalla mia gente, e dalle persone libere di tutto il mondo, ovunque si trovino. In Cisgiordania, dove si sollevano contro l’oppressione; nelle terre occupate [del 1948], orgogliose e radicate nel territorio per affermare la propria identità; il mio eroico popolo nella Gaza vittoriosa, e tutte le persone libere del mondo, di tutte le nazionalità e origini.

Sono qui, oggi, a conclusione della prima fase della mia battaglia contro questa occupazione brutale, e ho messo in atto la seconda, che mira all’unità di tutti i prigionieri, provenienti da qualsiasi settore e partito politico, in modo che tutti noi possiamo, insieme, costituire la punta avanzata della lotta nazionale, dentro e fuori (dal)le prigioni.

Dopo che (come mi aspettavo) il giudice dell’occupazione militare ha deciso [di respingere il ricorso contro la detenzione amministrativa], ignorando le mie libertà, vita e dignità, è per me necessario rispondere per oppormi a questa decisione brutale. Quindi, a partire da oggi, 1o agosto 2016, rifiuto ogni esame medico richiesto dai dottori dell’ospedale. Esigo il mio immediato ritorno in carcere, nonostante il peggioramento delle mie condizioni di salute, per ergermi in un solo fronte e in un’unica linea insieme con i prigionieri dell’occupazione, a fianco a fianco con tutti i prigionieri in rivolta, levando alta la voce: «La vostra decisione non passerà facilmente!» Soprattutto dopo che l’occupazione ha superato un’altra linea rossa, ancora più pericolosa, cioè mandarmi in detenzione amministrativa, decisione che mira a liquidare tutti i leader del movimento dei prigionieri, i suoi quadri e coloro che ne sollevano alta la bandiera per difendere il diritto dei detenuti alla libertà e alla dignità.

O mio eroico popolo, l’ora della lotta è arrivata. Sono pieno di speranza. Allo stesso modo ho sempre pensato che tu sei il muro che si erge a difesa della nostra lotta. Ciò che ho ricevuto da voi attraverso le lotte, i sit-in e le manifestazioni mi dà maggiore determinazione a proseguire fino alla vittoria. O libertà o martirio.

La vittoria è inevitabile.

Bilal Kayed
Barzilai Hospital
1 August 2016

da https://invictapalestina.wordpress.com/

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Sergio Dal Farra, un bellunese in Patagonia

Il Partigiano Silvano Simeoni con Sergio Dal Farra (a dx)

Il Partigiano Silvano Simeoni con Sergio Dal Farra (a dx)

Morire per una 24 ore piena di libertà. La militanza nell’Erp, Esercito rivoluzionario del popolo, di Sergio Dal Farra nell’Argentina dei militari degli anni ’70.

La Plata (Argentina) metà degli anni ’70. Un giovane alto, robusto di corporatura, con baffi e capelli scuri cammina con in mano una 24 ore, diretto verso il centro. Nascosta al suo fianco ha una pesante Colt 45 modello 1911, arma d’ordinanza delle forze armate statunitensi fino al 1985. Il suo nome è Sergio Dal Farra, di origini bellunesi nato nel 1950 a San Carlos de Bariloche, in Patagonia nord occidentale, studente di ingegneria a La Plata, una città universitaria a una sessantina di chilometri da Buenos Aires. Dal 1974 militante dell’Erp, Esercito rivoluzionario del popolo, un movimento clandestino in opposizione al regime militare. I suoi compiti erano circoscritti alla propaganda politica, con funzioni di appoggio nelle azioni urbane di volantinaggio e scritte sui muri. Nella valigetta Dal Farra ha un congegno con una piccola carica esplosiva che ha solo la funzione di lanciare in aria i volantini dell’Erp e quindi disseminarli nella piazza principale de La Plata.

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Sergio Dal Farra, Argentina 1975

Ingegner Dal Farra, ci racconta cosa succede quel giorno a La Plata?

“Si trattava di un’azione dimostrativa, per far sapere alla popolazione che c’era tra loro un movimento che si opponeva al regime militare. Eravamo circa in 5mila militanti dell’Erp e con noi c’era anche il fratello di Che Guevara. Ad un incrocio vengo fermato da una volante della polizia. Ero consapevole che se mi avessero fatto aprire la valigetta quei volantini sarebbero stati la mia condanna a morte. E sapevo anche che sarebbe stato preferibile morire con l’arma in pugno piuttosto che cadere nelle loro mani. Andò tutto bene, perché si limitarono a chiedermi un indirizzo, un espediente per vedere la mia reazione, se manifestavo nervosismo o avevo qualcosa da nascondere”.

Quindi eravate disposti a morire per dei volantini di propaganda.

“Sì, molti di noi sono morti per questo ideale di libertà. Ripensandoci, credo che questa inclinazione al sacrificio estremo sia un retaggio della nostra cultura cristiana”.

Se dovesse ritornare indietro rischierebbe ancora la vita per un’azione dimostrativa?

“Sì, certamente. Combattevamo per gli ideali della nostra generazione. Io appartenevo ad una famiglia della classe media, se avessi voluto avrei potuto starmene fuori dalla politica e dalla lotta armata. A condizione però di voltarmi dall’altra parte facendo finta di non vedere quello che succedeva intorno a me”.

Quale è stata la scintilla che l’ha convinta a fare quella scelta radicale?

“È successo nel giugno del 1974, dopo aver partecipato ad una manifestazione operaia. Frequentavo già il movimento studentesco e leggevo il giornale clandestino El Combatiente. Durante la manifestazione, mentre sto parlando con degli operai di una fabbrica siderurgica del Gruppo Iri, mi accorgo che siamo accerchiati dalle forze dell’ordine in assetto di guerra. Riesco a sfilarmi dal corteo. Ma il giorno dopo leggo che 5 operai sono stati massacrati dalla polizia. Quel giorno decido di entrare a far parte dell’Erp, il movimento clandestino che insieme all’altro movimento dei Montoneros, si contrapponeva al regime militare. Rimango nell’organizzazione clandestina per tre anni, fino al giugno del ’77 quando lascio l’Argentina e vengo in Italia”.

Che aria tirava in quel periodo in Argentina?

“Il I° maggio del 1974 per la Festa dei lavoratori, il presidente Peron, al suo terzo mandato, si affaccia al balcone di Plaza de Mayo, la piazza principale di Buenos Aires, e pronuncia un discorso che rompe con la sinistra. Il ritorno di Peron, infatti, era stato appoggiato dai militari per fermare il comunismo. Il Peron del 1974 non è più quello degli anni ’50 che riesce a rendere le classi operaie protagoniste della vita argentina e organizza i sindacati. Ora Peron ha per suo consigliere il capo della loggia P2 Licio Gelli che, come mi riferì il funzionario dell’Ambasciata di Buenos Aires Bernardino Osio, lo accompagnava in tutte le riunioni d’affari. Cambia anche la strategia. Prima i morti li facevano vedere come deterrente, il messaggio era quello di non ostacolare il governo. Dopo il colpo di stato cambia la metodologia, i corpi dei morti non si trovano più. Non dimentichiamo che in Cile l’11 settembre del 1973 era stato destituito Alliende con un colpo di stato sostenuto dalla Cia, che porta al potere per 17 anni la dittatura militare del generale Pinochet. E mentre la maggioranza del popolo cileno appoggiava Alliende, in Argentina dopo la morte di Peron (01.07.1974) la società civile era disorganizzata, la classe media, gli emigranti italiani anche figli di italiani scomparsi vogliono che sia ristabilito l’ordine e appoggiano il colpo di stato. La Chiesa si divide. Un settore importante della gerarchia ecclesiastica, attraverso la delazione, appoggia i militari. Sette vescovi denunciano la violazione dei diritti umani, e due di loro vengono eliminati”.

Lei in questa fase intravede lo zampino della Cia anche in Argentina come in Cile?

“I militari sono sempre stati i cani da guardia del potere. C’è un detto in Sudamerica che dice, negli Stati Uniti non ci sono colpi di stato perché nel territorio non ci sono ambasciate americane”!

Perché nel giugno del 1977 decide di andarsene dall’Argentina?

“All’interno dell’Erp eravamo organizzati in nuclei operativi di tre persone. Per ragioni di sicurezza non conoscevamo il nome di battesimo dei nostri compagni, ma solo il nome “di battaglia”, un po’ come nella Resistenza partigiana. Anche le riunioni le facevamo cercando di non rendere identificabili i luoghi ai partecipanti, e se qualcuno li riconosceva doveva dichiararlo. Non dovevamo lasciare indizi per evitare che, se catturati, sotto tortura i nostri compagni rivelassero nomi e luoghi. Il mio compagno di stanza, aveva il presentimento di essere stato individuato. E infatti, un giorno quando stavo per rientrare, mi accorgo che l’isolato è presidiato dalla polizia. Evito quindi di avvicinarmi. Dopo un po’ c’è un conflitto a fuoco nel quale il mio compagno perde la vita e la casa viene distrutta dalla polizia che cerca documenti. Per me la situazione era diventata pericolosa. A salvarmi la vita è stato Bernardino Osio, funzionario dell’ambasciata italiana di Buenos Aires che mi ospitò in casa sua, mi fece avere il passaporto italiano e mi fece partire da un aeroporto secondario per l’Uruguay, poi per Rio de Janeiro e quindi per Roma. Ho saputo solo dopo, che quando rimasi tre ore fuori dai cancelli dell’ambasciata italiana, con il rischio di essere catturato ed ucciso (durante la dittatura sparirono 30mila persone, cosiddetti desaparecidos ndr) era perché l’ambasciatore di Buoenos Aires non voleva farmi entrare. Perché dalla Farnesina non aveva ricevuto alcuna direttiva ed evidentemente non voleva grane”.

Che idea si è fatto delle forze in campo che hanno determinato le sorti dell’Argentina?

“Il coinvolgimento dei militari dal 1976 all’83 era subordinato al comando delle multinazionali, c’erano anche imprese italiane ed europee come la Mercedes. Una parte della Chiesa ha preso parte a questo progetto appoggiando i militari, per difendere i principi cristiani contro il comunismo. E tutto questo si è saputo grazie alle Madri di Plaza de Mayo, l’organizzazione creata dalle madri dei dissidenti che si riunirono sulla piazza principale di Buenos Aires per protestare. E’ grazie a loro che si aprono i processi. Con la democrazia, nel giugno 1987, il presidente Alfonsin emana la legge dell’obbedienza dovuta “obediencia debida” per sollevare da ogni responsabilità i grandi intermedi e inferiori dell’esercito che si fossero macchiati di crimini contro l’umanità tra il 1976 e il 1983. Per paura di un nuovo colpo di stato Alfonsin emana anche la legge del “Punto final” per chiudere la stagione dei processi. E solo nel 2005 con il governo peronista del presidente Kirchner saranno abrogate quelle leggi, consentendo così la riapertura dei processi e l’incarcerazione dei militari responsabili dei massacri”.

Ha parlato di Gelli. C’era un legame allora tra Argentina e Italia nella destra internazionale?

“Sì, dopo la strage di piazza Fontana a Milano (12.12.1969), Giovanni Ventura, fascista infiltrato nella sinistra e informatore del Sid (il servizio segreto diventato Sisde poi Aisi) si rifugia in Argentina e apre nella capitale Buenos Aires il ristorante di lusso Il Filo, nei pressi di Plaza San Martin, una delle zone più centrali ed eleganti della città. Inoltre si era infiltrato in una organizzazione pacifista della sinistra dove incitava alla violenza. In Sud America, in Bolivia, trova rifugio anche Stefano Delle Chiaie, esponente della destra internazionale. In Argentina è legato alla Tripla A, Alianza Anticomunista Argentina. Lo ricordo dopo l’attentato all’aeroporto di Buenos Aires (massacro di Ezeiza del 20.06.1973) eseguito dalle forze peroniste di destra contro il movimento peronista di sinistra, in una foto che lo ritrae sul palco con il mitra, insieme alle autorità”.

Roberto De Nart

http://www.bellunopress.it/

http://alfonsolentini.blogspot.it/p/un-bellunese-di-patagonia.html

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Quei magnifici settantenni No Tav che non mollano mai

Marisa Meyer

Marisa Meyer

«Qui in val di Susa l’abbiamo capito da tempo: la politica dei partiti non ci interessa più. Noi con questa lotta moralmente abbiamo già vinto perché abbiamo costruito qualcosa che nessuno ci potrà mai togliere». Così parlava Marisa nell’estate del 2012 di fronte alla mia telecamera, con la serena determinazione di chi ha capito da che parte stare. Il volto di Marisa si illumina con un sorriso: «Certo che se perdiamo il sorriso diventa una risata – ci saccagnano di brutto!». La risata è accompagnata dall’eloquente gesto della mano che preannuncia le (ulteriori) mazzate per i riottosi no tav. Marisa chiude il discorso scrollando le spalle come a dire: non c’è problema, io sono e resto qui. Ho sempre pensato che quella risata sia una di quelle epifanie in cui tonnellate di parole, di azioni, di desideri si condensano in un gesto. Il vecchio adagio contro chi detiene il potere de una risata vi seppellirà espressa in forma pura da una anziana signora valsusina. Ci saccagnano di brutto.
Una risata li seppellirà
Ne vale la pena se alla fine si riesce a ridere immaginandosi le botte che lo Stato darà per farla finita con questo movimento: perché da qui, da dove si è arrivati con questa risata, non si torna più indietro. Ho ripensato a tutto questo quando ho visto la foto di Marisa sorridente con il suo bastone mentre esce dalla caserma dove si doveva recare per l’obbligo di firma, in seguito alle misure cautelari previste dalla procura di Torino. Ho riconosciuto ancora l’irriverente serenità di quel sorriso, ma ho provato amarezza perché quella foto trasmette una consuetudine a cui non ci si deve abituare. Non è affatto normale che una signora di 71 anni debba andare a firmare in una caserma.
A meno che il ci-saccagnano-di-brutto non sia arrivato a una nuova fase che non riguarda solo la vicenda di Marisa. Dopo aver dichiarato che si perseguivano solo le illegalità commesse e non il diritto al dissenso, dopo aver agitato lo spettro degli anni di piombo per far scattare nella testa della gente la superficiale ma efficace associazione no tav=terrorismo, ecco la nuova frontiera: i vecchi.
Marisa racconta della perquisizione compiuta a casa sua. «Li ho caricati di miserie! Ma non vi vergognate? A 71 anni ancora questo mi doveva capitare!». Alla domanda se è in possesso di droga e/o armi la risposta è ancora una risata. Sequestrano una bandiera no tav come prova (!) dell’appartenenza al movimento. Sequestrano una felpa del famigerato NPA, Nuclei Pintoni Attivi, una formazione che mangia e beve di fronte alle recinzioni del cantiere e che ironicamente riprende una sigla bellicosa imputata ai no tav qualche anno fa.
A Marisa si contesta di aver garantito copertura e supporto a coloro che parteciparono agli scontri del 28 giugno 2015, quando un gruppo di manifestanti attaccò i jerseys posti per bloccare il percorso verso il cantiere. Marisa era su un furgone dove son stati trovati materiali che sarebbero stati utilizzati negli scontri. «Non riesco a camminare e ho chiesto un passaggio, che cosa c’era o non c’era dentro il furgone non lo sapevo». Un anno dopo arriva la misura cautelare che dovrebbe aver senso se viene predisposta in un arco temporale vicino ai fatti contestati quando ci si può rendere irreperibili e far sparire prove (la bandiera no tav): «Ma a 12 mesi di distanza che senso ha?», si chiede Marisa. «Da anni ci vogliono esasperare sperando che qualcuno perda la testa».
La linea politico/giudiziaria messa in atto dal coagulo di interessi dentro la Torino Lione ricorda una
sorta di accanimento terapeutico con finalità però alterate. Qui l’accanimento si manifesta con la volontà di voler ammazzare un malato (da guarire come facevano gli inquisitori con le streghe e gli eretici) che non ha nessuna intenzione né di spegnersi né di abiurare. «Ma dove credono che lei possa andare, in Australia?!?». Marisa racconta che in caserma le han rivolto questa domanda. «Magari!», è stata la risposta. Anche se credo che Marisa non desideri andare né in Australia né altrove.

Nicoletta Dosio

Nicoletta Dosio

Nicoletta Dosio

C’è un’altra signora di 71 anni, che sta benissimo dove sta. Per Nicoletta la notizia dell’obbligo di firma è caduta in un momento in cui lei si sentiva fisicamente debilitata. Le misure cautelari, previste per lo stesso episodio, le han fatto passare ogni malessere e le è tornata tutta l’energia necessaria per decidere di rifiutare l’obbligo di firma. «Mi devono portare in galera». Nicoletta lo ha scritto in una dichiarazione che è un manifesto di dignità: «Non accetto di far atto di sudditanza con la firma quotidiana, non accetterò di trasformare i luoghi della mia vita in obbligo di residenza né la mia casa in prigione; non sarò la carceriera di me stessa».
«Io mi rifiuto: non firmo»
Nella dichiarazione si ribadiscono le ragioni di una radicale opposizione a un progetto che è il paradigma del sistema che regola il paese e le nostre vite. «Sete di giustizia sociale che ci fa schierare contro lo spreco di denaro pubblico e ci impegna al fianco delle lotte per la casa, contro le privatizzazioni, per una sanità e una scuola pubblica e gratuita. Indignazione verso un sistema che garantisce libera circolazione alle merci e ai capitali, ma alza barriere invalicabili contro chi fugge dalle guerre e dalla fame».
Qui è maturato qualcosa che trascende le locali e legittime rivendicazioni bollate come nimby. Anche perché questo progetto si realizza su un territorio specifico ma ha una ricaduta enorme su tutto il paese in termini di spesa e perché oggi più che mai ad apparire interessati a difendere il proprio cortiletto non sono i valsusini; un cortiletto angusto, colmo di una retorica che sopravvive a se stessa sempre più a stento, dove una Grande Opera ricorda più la cantierizzazione eterna di quel bancomat statale che è la Salerno/Reggio Calabria e sempre meno l’utopia delle grandi comunicazioni europee di Jacques Delors citate dai fautori del Grande Buco, buco che rischia di tramutarsi in farsa con il rottamante premier che in val di Susa non si reca mai, per il timore forse che qualcuno gli passi la pagina dove scrisse che la Torino Lione era un’opera fuori dal tempo.
Nicoletta sottolinea un salto in quest’ultima tornata di provvedimenti giudiziari: nonostante tutto ciò che si è vissuto in valle, «è la prima volta che si colpisce in modo irrispettoso, come a volersi vendicare di qualcosa. Secondo gli schemi mentali che appartengono a chi fa questi provvedimenti, i vecchi sono i garanti dell’ordine costituito. Ma qui noi vecchi siamo diventati cattivi maestri e se è per cercare un’umanità diversa, io lo rivendico. Quelli che ci accusano mi fan pensare all’ispettore Javert de I Miserabili di Victor Hugo. Un personaggio triste, prigioniero di un senso del dovere privo di umanità che quando si sente schiacciato dalla statura morale del galeotto Jean Valjean decide di gettarsi nella Senna perché il vuoto della propria vita gli risulta insopportabile».
In preghiera alle recinzioni
Di fronte alla vicenda di Paolo, l’immagine dell’ispettore Javert è ancora più inquietante. Paolo ha 74 anni e fa parte di un gruppo di cattolici molto conosciuto da chi sta dentro il cantiere, perché dal 2011, alcuni di loro si recano in preghiera ogni giorno di fronte alle recinzioni. Paolo è accusato di aver ferito 4 poliziotti e aver spaccato due scudi in dotazione quando alcuni europarlamentari erano stati autorizzati a entrare nel cantiere e dei militanti volevano accompagnarli. La polizia ha negato loro l’accesso. Paolo mi mostra il video che documenta il momento di tensione dove i poliziotti dovrebbero essere stati feriti e gli scudi spaccati.
«Europarlamentari e No Tav al cantiere di Chiomonte sul ponte di Clarea 3 ottobre 2015» è disponibile su Youtube. Paolo è quel signore visibile sulla destra con gli occhiali, con il cappello grigio e lo zaino sulla schiena. Ma non voglio descrivere il video. Dico solo che al termine della visione ho chiesto di vederne una seconda parte che mostrasse finalmente il fatto alla base di queste accuse: ci doveva essere per forza qualcos’altro da vedere. Paolo ha scosso la testa. Quello che si vede è ciò che è accaduto.
Sette chiodi nella caviglia
A casa sua Paolo mi mostra una radiografia di qualche anno fa: si tratta della sua caviglia sinistra dove si possono vedere 7 chiodi ed un perno, in seguito a un incidente. È veramente difficile immaginare che il vecchio che ho davanti, zoppicante e con qualche chiletto di troppo sia il pericoloso soggetto descritto dall’accusa. Attenzione: a scanso di equivoci non voglio dire che Paolo sia buono, secondo l’accezione ipocrita che di questo termine si tenta di far passare, come non occorre essere cattivi per avere forza e determinazione nel compiere dei reati. Paolo questo lo sa molto bene ed è pronto a correre dei rischi. Ma per ciò che fa, non per ciò che non fa. Il magistrato a capo dell’indagine ha proposto l’arresto, il gip lo ha negato. Nel marasma di ciò che accade giornalmente, che ci sia stato qualcuno che ricoprendo un ruolo istituzionale abbia usato il proprio tempo e le proprie energie per discutere seriamente dell’arresto di Paolo, 74 anni e sette chiodi nella caviglia, come un atto di routine giudiziaria sulla base anche del filmato che ho visto, significa che millimetro dopo millimetro in un lento bradisismo, e non durante una scossa di terremoto, è accaduto qualcosa che fino ad un attimo prima si trovava nella sfera dell’impensabile.

Paolo Perotto

Paolo Perotto

Paolo Perotto

«Quando ho ricevuto la busta con le accuse ho provato scoramento. Ora provo misericordia: se son ridotti a fare queste cose a uno come me deve essere gente molto infelice. Invece io nonostante tutto sono felice. Questa lotta mi ha cambiato tanto. Sono un persona più aperta, accogliente, entusiasta.
E penso che la vittoria non sia qualcosa di definitivo ma uno stato d’animo, un cammino di umanizzazione». Paolo sorride ma c’è una parte di lui che prova tristezza, perché è una famiglia intera a sentirsi colpita e trattata come delinquenti in un paese dove la presunzione di innocenza vale solo per certe categorie. Se sei un no tav poi, la presunzione è sempre e solo quella di colpevolezza secondo la prassi del colpirne uno per educarne cento.
In questi anni voci e penne autorevoli, piene di senso di responsabilità, hanno affermato delle cose
grottesche come la surreale necessità di fare la Torino Lione per difendere la democrazia da una feroce minoranza che la minaccia. Parole incredibili persino da pensare, in nome dell’ordine costituito. Ma con questo ordine costituito in val di Susa si è consumato uno strappo, devastante soprattutto per coloro che nello Stato ci credevano sul serio. La risposta è la rivolta, intesa come un necessario riposizionamento nei confronti di una realtà che si smette di riconoscere come propria. L’unica risposta possibile di fronte al metro di valutazione utilizzato da parte di chi amministra la giustizia, di chi gestisce l’ordine pubblico, del ceto politico, del mondo della cultura che, tranne rare eccezioni, ha snobbato questa vicenda. Temo che molti di coloro che tentano di gestire questo esistente non avrebbero nessun problema ad adeguarsi a scenari in cui lo stato di diritto retrocedesse, magari a causa dell’acuirsi della crisi economica e sociale.
Nella storia del ‘900 molti si sono adeguati senza patemi d’animo ai sistemi totalitari. Sto esagerando? Non lo so. Alla fine, mi conforta la giovinezza in barba all’anagrafe di Marisa, di Nicoletta. Mi conforta l’immagine di un vecchio che da solo guarda in silenzio le forze dell’ordine schierate davanti a lui, appoggiandosi al bastone. Mi conforta la sua fede nell’umanità che non retrocede nemmeno quando gli uomini in divisa gli mollano un colpo, uno dietro l’altro, sulla gamba malferma. Paolo cerca di stare in piedi e di parare i colpi proteggendosi la gamba con il bastone: era un po’ meno anziano una decina d’anni fa. Quando mi racconta questo fatto le lacrime ballano nei suoi occhi. Ma è un attimo di sconforto che passa e deve passare perché la sensazione e la voglia di essere vivi e restare umani deve essere più forte di ogni altra cosa. Anche se l’ispettore Javert ti vuole arrestare, e hai 74 anni e 7 chiodi nella caviglia.

Daniele Gaglianone, Il Manifesto del 21 luglio 2016

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Giuseppe Albano, il “Gobbo”

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(…) Ritornando a Giuseppe Albano, non si può comunque non rimanere stupiti di come un ragazzo di soli 18 anni sia assurto alla cronaca nazionale e di come se ne tramandi la memoria anche a distanza di ormai settantanni dalla morte.
Parte di questo merito va, senza dubbio, alle cronache dell’epoca, che ci tramandano un personaggio al limite della mitologia.
Basti pensare a come il giornale azionista Italia Libera, nel 1944, descriveva le azioni del Gobbo: “Ed ecco da una porta uscire un gobbo armato di moschetto e di un tascapane di bombe. Si piazza in mezzo a un quadrivio e lancia una bomba. Poi tranquillo, tira un primo colpo di moschetto. I tedeschi rispondono. Il Gobbo tira un’altra bomba e un altro colpo. 1 tedeschi gli sparano con la mitragliatrice. Ma il Gobbo è fatato: nessun colpo lo raggiunge”.
Le gesta del partigiano Albano, del “campione del suo popolo”, autore della requisizione della farina, venivano così descritte da Orfeo Mucci: “Lui era il mitragliatore di tutti i compagni che andavano a fa’ le azioni. Ne ha fatte tante, come vedeva un tedesco gli sparava. Ai camion che portavano da magna’ ar fronte je montavano sopra, buttavano li sacchi der magna’ e sfamavano er Quarticciolo e Tor Pignattara” (da: Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito).
Dopo la liberazione, una netta inversione di parabola condusse quell’eroe a diventare un bandito incallito. Giuseppe Albano, coraggioso partigiano, era, chissà se inconsapevolmente, finito al servizio delle forze monarchico-fasciste. Quelle stesse forze che aveva in precedenza combattuto; voltando le spalle a quel popolo di proletari e sottoproletari al fianco dei quali aveva agito. Anche questo fattore può aver contribuito alla sua morte: il venir meno di quella ragnatela di copertura, simpatie e connivenze che la sua gente aveva sempre tessuto per lui.
Per un bandito, infatti, non c’è cosa peggiore che estraniarsi dal suo popolo: proprio questo sembra essere stato il destino di Giuseppe Albano.
Oggi, a settanta anni dalla sua morte, anche se rimangono gli interrogativi di sempre, queste pagine aiuteranno a capire qualcosa di più su quella che probabilmente fu la figura più “controversa” della Resistenza romana. Questo al di là del fatto, e non ci piace sottolinearlo, che oggi tutte le figure della Resistenza, indistintamente, sono diventate “controverse”.
Di figure “pulite” non se ne trovano più. Anche un personaggio come Primo Levi è stato additato come responsabile, insieme ad altri della sua brigata partigiana, dell’eliminazione di spie. Certo, cosa avrebbe dovuto fare Levi? Cosa avrebbero dovuto fare le centinaia di partigiani che si trovarono nella stessa condizione, con il solo dubbio di essere accanto a una spia, e di condividere con questa segreti, piani militari, indirizzi?
Come ebbe a dire Sandro Pertini, chiunque avesse combattuto una guerra partigiana avrebbe capito che le spie andavano eliminate. Chiunque avesse potuto, anche solo potenzialmente, recare pericolo ai compagni in lotta, non poteva certo essere lasciato in condizione di farlo. In tanti casi bastò quindi anche il sospetto: non era concepibile, da parte di un comandante, prendersi l’enorme responsabilità di mettere a repentaglio la vita dei propri uomini.
Oggi, in tempo di pace, questo atteggiamento è difficilmente comprensibile. Allora lo sforzo più grande, in questi casi, è proprio cercare di contestualizzare gli eventi e calarsi in quella situazione.
Senza questo sforzo, ecco allora che tutti i partigiani – protagonisti di una guerra e non di una festa in maschera – diventano “controversi”. Si rischia di arrivare al paradosso che gli unici partigiani eroici e puliti sono quelli che in quella guerra persero la vita.
Gli altri, coraggiosi ma che ebbero la “colpa” di sopravvivere, sono destinatari di invenzioni giornalistiche se non di insulti: succede oggi a Luigi Longo, Pietro Secchia, Primo Levi; da sempre a personaggi come Francesco Moranino.

Brano tratto da “Il Gobbo” di Massimo Recchioni e Giovanni Parrella, Milieu Ed.

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Giorgio Bocca: Lettera aperta a Luciano Violante

Giorgio Bocca, con la sua medaglia d'argento al valor militare

Giorgio Bocca, con la sua medaglia d’argento al valor militare

Di lettere al compagno Violante ne ho già scritte parecchie sotto forma di articoli e credo che ne scriverò ancora, data la sua propensione a riproporre il trasformismo italiano. Dunque, onorevole presidente della Camera, eccomi qui a scriverLe senza alcuna speranza di cambiarLe la testa, l’intonazione della voce e il sorriso.

Insediandosi alla presidenza della Camera Lei ha proposto una revisione del fascismo di Salò, ci ha esortato a «capire quei giovani» e ora, mentre è in corso una campagna di diffamazione e di restaurazione verso la giustizia, ci dice che un’amnistia per Tangentopoli Le sembra utile e necessaria in tempi stretti, non più di due anni.

Non credo che con queste sortite Lei renda un servigio al suo partito, che prima si chiamava Pci e ora si chiama Pds. Perché sembrano confermare l’ecumenismo che arriva dalla Terza internazionale: ciò che è illecito se commesso dagli altri diventa lecito se commesso da noi. Che tradotto in politica recente dai comunisti emiliani era: «Il comunismo è il capitalismo diretto da noi».
Oggi si ritrova in una confidenza di Massimo D’Alema: «Noi saremo i democristiani del Duemila», il nuovo partito moderato e mediatore.

Che devo dirLe, sarò un azionista, un giustizialista ma questo ecumenismo mi fa cadere in depressione, mi fa pensare che non saremo mai un paese normale, che saremo sempre un paese pretesco. Lei ha detto che la Resistenza e la sua cultura sono fallite perché non sono diventate patrimonio nazionale. Ma si dimentica di dire che la cosa avvenne anche per precipuo merito del suo partito e di Palmiro Togliatti che della Terza internazionale era un alto dirigente, il giurista che Stalin apprezzava per l’abilità con cui rivestiva una dittatura spietata di orpelli umanistici e democratici. In nome della Realpolitik e dell’ecumene, la rivoluzione liberale o progressista della Resistenza – sì proprio quella che aveva espresso in ogni vecchio partito, comunista compreso, degli uomini nuovi che in qualche modo ripetevano la fioritura giacobina: comunisti, cattolici, repubblicani, liberali, socialisti che volevano cambiare il vecchio Stato e portarvi la comune speranza democratica della Resistenza, la comune voglia di giustizia e libertà – venne bloccata, congelata dall’alto, con la svolta di Salerno, l’articolo 7, l’amnistia ai fascisti di Salò. Il tutto lodato, magnificato come saggezza e lungimiranza politica.

Il risultato mi pare sia stato l’anomalia italiana, la sua democrazia imperfetta, zoppa, la sua diversità dalle altre democrazie europee, la lunga serie di mediazioni e di compromessi che oggi puntualmente si ripropongono. Quel grande marxista che era Palmiro Togliatti era convinto, come Lei onorevole Violante, che la giustizia reazionaria, i fascisti, i clericali, una volta toccati dalla benevolenza e dal perdono del suo partito, sarebbero diventati elettori grati e fedeli. E invece quelli capirono benissimo dove quell’ecumene andava a parare, e la magistratura reazionaria cercò perfino di invalidare il referendum contro la monarchia, assolse tutti i fascisti che le capitavano, benedì l’amnistia e poi decapitò il movimento contadino come al tempo de «la boje» o dei moti siciliani. Insomma, ricominciò a fare il suo mestiere, a praticare la sua «normalizzazione», come si vorrebbe rifacesse ora, con l’avallo degli ecumenisti.

Il revisionismo filofascista, che sta spuntando da mille fontanili, sta diffondendo l’immagine di una Resistenza feroce e vendicativa, la resistenza di Porzus e del «triangolo rosso», apparentata alle foibe e ai gulag. La verità è che non si conosce nella storia una rivoluzione o una guerra civile con dei vincitori così ragionevoli, così responsabili o così ingenui da accettare che ritornassero subito nella circolazione politica i torturatori, i seviziatori, i fucilatori al servizio dei nazisti, per ricostituire un partito neofascista che è durato fino a due o tre anni fa, fino a che a Fiuggi lo hanno fatto fregolianamente scomparire. Oggi si dice che l’indulto ai brigatisti non sarebbe accettato perché offensivo per i parenti delle vittime, che si contano in un centinaio. Allora non ci si preoccupò dei parenti delle vittime che si contavano a decine di migliaia.

Ma l’aspetto, onorevole Violante, che più mi ha dato fastidio nella sua apertura ai neofascisti nostrani è stato il suo appello, che più ipocrita non si può, a «capire i ragazzi di Salò». Un appello che in pratica annulla il giudizio della storia, tutti parificando.

Cercar di capire? Ma sono cinquant’anni che noi non ecumenisti cerchiamo di farlo, percorrendo tutte le ramificazioni della psicologia umana: quelli che andarono a Salò perché ignoravano la storia, compresa quella del fascismo, quelli che per l’onore, per il mussolinismo, perché orfani di fascisti, per un ritorno al diciannovismo, per il Duce tradito, anche quelli che erano più nazisti che fascisti. Ma cercar di capire i moventi e le pulsioni personali o di gruppo non significa cancellare, stravolgere quella che fu la storia di Salò in quei venti mesi, la storia di uno Stato fantoccio, tenuto in piedi dagli occupanti nazisti, e subìto per sopravvivere o alimentato dalla speranza che i tedeschi vincessero, che cioè si attuasse il mondo della rigenerazione razziale, dei popoli eletti pronti a praticare una nuova schiavitù mondiale.

Anche noi della montagna eravamo giovani e ignoranti e mossi dai più svariati motivi personali e dalle casualità, ma una cosa ci era molto chiara: se vincevano i nazisti finivamo impiccati o in fuga verso remoti rifugi. Non ci venga a dire, onorevole Violante, che i «ragazzi di Salò» queste cose non le sapevano. Le sapevano così bene che ancora oggi il presidente della loro associazione rifiuta di accettare la svolta di Fiuggi.

E veniamo alla seconda sortita: la proposta di amnistia. Il procuratore capo Borrelli in un’intervista ha definito Lei, presidente Violante, un ecumenico, e si è capito a che cosa alludeva: alla sua lunga metodica marcia verso la presidenza della Repubblica, che parte dall’idea togliattiana e ora dalemiana che «senza i voti dei moderati o della destra la sinistra non arriva al governo». Idea che richiama i teoremi trasformisti e opportunisti già detti, come «il comunismo è il capitalismo diretto da noi» e ora «la democrazia è il grande inciucio sotto la nostra supervisione».

A noi pare vero esattamente il contrario. La proposta di amnistia, mentre si discuteva sull’arresto di Previti, sul processo ad Andreotti, sulla corruzione della giustizia ancora in atto da parte dei sopravvissuti alla partitocrazia, ripete la svolta dell’immediato dopoguerra, è un altro blocco, un altro stop alla ripresa di rivoluzione democratica tentata dalla magistratura. Quando scrissi che Mani Pulite ripeteva in qualche modo la rivoluzione democratica della Resistenza, il compagno D’Alema e il compagnissimo Salvi ne furono sdegnati come per un sacrilegio. Ma mi pare che le cose stiano esattamente così: ancora una volta la minoranza laica, democratica, progressista ha cercato di approfittare di una crisi del vecchio Stato – allora la sconfitta militare, oggi la bancarotta partitocratica – per fare quello che in Inghilterra e in Francia venne fatto dalle rivoluzioni borghesi: praticare una giustizia, una legge eguale per tutti, uscire finalmente fuori dalla giustizia a due piani, implacabile con gli umili, discrezionale per i potenti.

Che il tentativo comportasse e comporti i suoi rischi era evidente. Non occorre essere un collaboratore stretto del supersegretario D’Alema, con accesso al bunker di via Botteghe oscure, dove si ritrova il fior fiore del machiavellismo contemporaneo, per sapere che anche oggi «una legge eguale per tutti» non è interamente compatibile con un capitalismo che non disdegna i buoni affari malavitosi, che ha scelto la globalizzazione per ritrovare completa libertà di manovra; non è neppure una scoperta trascendentale quella del rapporto di forze, un rapporto di uno a uno, per cui la riforma dello Stato può essere fatta solo dall’«inciucio» generale.

Ma c’è chi come noi, oggi come nell’immediato dopoguerra, resta convinto che dalle grandi mediazioni non esca nulla di sostanzialmente nuovo, si ripetano sempre i compromessi paralizzanti del conformismo italico, la ricerca sistematica della via indolore, che va bene per tutti.

Noi siamo preoccupati, onorevole presidente, perché non crediamo che le sue uscite siano estemporanee, e frutto di un’ambizione personale alla quale il suo partito è costretto a lasciar libero corso. Noi temiamo che le sue sortite avvengano con il consenso del suo partito, o almeno del gruppo dirigente che aspira a farne «i democristiani del Duemila».

La nostra ambizione con la nascita dell’Ulivo era diversa: di ricostituire in qualche modo una sinistra resistenziale, superiore ai partiti, più attenta al bene comune che alla distribuzione dei cadreghini. E ci è parso, ci pare che il successo del governo dell’Ulivo abbia risposto a questa speranza di una riforma sostanziale, a cominciare dall’antica e mancata attuazione di una legge eguale per tutti. Ma la proposta di amnistia per Tangentopoli, anche se non avrà seguito, è un blocco, un siluro, una smentita di questa speranza. È, piaccia o meno, un’offerta indecente: fidatevi di noi, confermateci al potere, che sapremo noi difendervi, proteggervi, perché secondo il vecchio ecumene la vera democrazia rinnovata è quella diretta da noi. La proposta non è solo impudente, onorevole Violante, ma anche autolesionista.

Se Lei ha fatto le sue sortite per diventare presidente della Repubblica temo che abbia sbagliato. Lei mi ricorda quegli aspiranti alla direzione dei grandi giornali che esageravano nel corteggiamento dei padroni, non perdevano occasione per schierarsi in difesa dei loro interessi, cercavano di frequentare le loro case, i loro luoghi di vacanza e quasi tutti poi venivano «trombati», perché i padroni i direttori se li sceglievano poi a loro intuito.

Penso, e mi corregga se sbaglio, che il suo progetto si basi sulla mancanza fra i moderati, nella destra, di candidati accettabili. E allora, se di sinistra deve essere, che sia uno che può promettere alla destra vita comoda e quell’impunità che è fra i suoi massimi desideri. Come presidente super partes della Camera Lei pensa di poter essere quell’uomo. Noi speriamo vivamente che si sbagli.

Giorgio Bocca, gennaio 1998

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