“Guerriglia partigiana a Roma 1943-44” di Davide Conti

Davide Conti è un giovane storico, ma al contempo già conosciuto e stimato scrittore. Tra il 2008 e il 2009 è stato collaboratore ausiliario del consulente tecnico della Procura della Repubblica di Brescia, Aldo Giannuli, nell’ambito dell’inchiesta sulla strage del 28 maggio 1974 e dal 2010 è consulente dell’Archivio Storico del Senato della Repubblica. Le sue principali pubblicazioni sono state: “Lo Stato repubblicano e Via Rasella” pubblicato all’interno del libro di Rosario Bentivegna “Achtung Banditen. Prima e dopo Via Rasella” (Mursia, Milano 2004); “Le brigate Matteotti a Roma e nel Lazio” (Odradek, Roma 2006); “L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente” 1940-1943” (Odradek, Roma 2008). Nel 2010 con Ediesse ha pubblicato “Le Radici del sindacato. La fondazione della Cgil e le carte del congresso costitutivo del 1906”. Sempre nel 2010 ha curato il libro-intervista con Massimo Rendina “Cronache dalla prima Repubblica” e il volume “Leo Solari. I giovani socialisti nel crocevia degli anni ′40”, entrambi con Odradek. Con la stessa casa editrice ha pubblicato nel 2011 “I criminali di guerra italiani. Accuse, processi impunità”, infine nel 2013 “L’anima nera della Repubblica. Storia del Msi” (Laterza). Riguardo alla sua ultima pubblicazione gli rivolgiamo alcune domande fondamentali per capire il peso di questa nuova raccolta documentaria e soprattutto le ragioni delle sue scelte di approfondimento storico.

Qual è l’obiettivo che si è prefissato di raggiungere con questo libro?

La ricerca si è focalizzata su un aspetto centrale della Resistenza di Roma durante l’occupazione tedesca del 1943-1944: la guerriglia urbana, ovvero una dimensione specifica della lotta armata contro il nazifascismo che fu contestata, delegittimata e criminalizzata per la sua natura non solo da fascisti e nazisti ma anche da poteri istituzionali (Vaticano e monarchia) e dalle componenti moderate del Comitato di Liberazione Nazionale (Dc e liberali). Nell’Italia del dopoguerra, segnata dalle necessità della ricostruzione economica, politica e morale, la guerriglia urbana e la sua difficile eredità (connessa con la dimensione della guerra civile) fu esorcizzata o raccontata con pudore dagli stessi partiti antifascisti che la praticarono cioè il Pci, il Psi ed il Partito d’Azione.

Come ha articolato il volume?

Con un saggio introduttivo che ricostruisce le matrici storiche della guerriglia all’interno delle culture politiche azioniste, socialiste e comuniste, nonché una breve ricognizione dei principali autori che si sono occupati del tema fin dall’800. Poi ho dedicato un capitolo ad ognuno dei tre partiti (Pci, Psiup e PdA). In ultimo un’appendice sui «destini» dei partigiani nel dopoguerra e la difficile trasmissione dell’eredità della guerriglia nell’Italia repubblicana.

Quale fu l’estensione della guerriglia partigiana nella capitale occupata e quale ruolo ebbe la popolazione civile?

La guerriglia urbana nella Roma occupata dai nazifascisti nel 1943-1944 ha rappresentato un fenomeno diffuso in tutta la città, coinvolgendo in modo diretto alcune migliaia di persone ed in modo indiretto un numero di abitanti ancora maggiore. Roma venne divisa dai partiti della sinistra antifascista in otto zone operative trasformando la città in un campo di battaglia, accidentato e pericoloso per le truppe tedesche e fasciste, grazie alla solidarietà, al sostegno fattuale e all’appoggio ideale della popolazione romana. Questa collaborò con i partigiani in ogni quartiere della città, dal centro alle borgate, e permise ai Gruppi di Azione Patriottica comunisti e socialisti ed alle Squadre d’Azione Cittadina del partito d’azione di combattere contro un nemico molto più forte per numero, armamento e risorse.

Le principali contestazioni alla pratica della guerriglia riguardano da un lato la sua «irregolarità» e dall’altro i suoi effetti rispetto alle rappresaglie sui civili. Come affronta questi temi nel suo libro?

La Resistenza romana ruppe, con la guerriglia urbana, il monopolio terroristico della forza dell’esercito nazista sulla capitale. L’ordine pubblico tedesco sviluppò nella città la pratica della «guerra ai civili» che ha trovato con le stragi di Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, Boves, Civitella Val di Chiana, (per citare solo alcune delle più note) la sua rappresentazione simbolica più forte. Le stragi di Pietralata, delle Fosse Ardeatine, de La Storta; i rastrellamenti di carabinieri, ebrei e civili; le camere di tortura a via Tasso, alle Pensioni «Oltremare» o «Jaccarino» non furono «rappresaglie» ma vere azioni terroristiche contro la popolazione a cui la guerriglia rispose come necessaria misura di Resistenza alla brutalizzazione nazifascista. La «irregolarità» della guerriglia fu quindi impostata come misura di Liberazione dall’occupante e si frappose alla presunta «regolarità» dell’esercito del III Reich che invece perseguì, in tutta Europa, le sue politiche di sterminio.

Quale fu il «peso» militare concreto della guerriglia durante l’occupazione tedesca di Roma?

Direttamente collegata con le forze Alleate la Resistenza armata venne organizzata in tutte le zone di Roma, realizzando centinaia di azioni di guerriglia e sabotaggio per tutti i nove mesi di occupazione. Il libro ricostruisce giorno per giorno tutte le azioni di guerra delle formazioni partigiane attraverso documenti clandestini dei partiti antifascisti, carte della questura fascista, giornali, documenti giudiziari e memorie orali dei protagonisti.

Perché ha scelto di trattare i tre partiti della sinistra del CLN?

Ho operato questa scelta seguendo due criteri fondamentali: La guerriglia urbana organizzata sistematicamente come misura militare della Resistenza al nazifascismo fu un fattore centrale che distinse comunisti, socialisti e azionisti dal resto dei partiti antifascisti del CLN (Dc, Democrazia del Lavoro e Pli) tanto da determinare la nascita della «Giunta Tripartita». Inoltre questi stessi tre partiti avevano una dimensione nazionale e facevano parte del CLN: due caratteristiche che li distinsero da un’altra formazione molto importante della Resistenza romana ovvero il Movimento Comunista d’Italia noto nella capitale come «Bandiera Rossa». Rispetto invece alla questione delle fonti, la ricerca è stata basata sulla comparazione e l’intersezione di una pluralità di documentazioni di origine e natura diversa.

Su quali fonti ha lavorato quindi?

Fonti interne, clandestine e non, dei partiti antifascisti; carte di polizia fascista e dei comandi tedeschi, materiali del fondo documentale del Ministero della Difesa «Riconoscimento qualifiche per le ricompense ai partigiani della Regione Lazio»; carte giudiziarie, stampa fascista e partigiana ed i nuovi fondi documentali privati versati dai membri dei GAP centrali di Roma (Bentivegna, Capponi, Fiorentini, Ottobrini, Calamandrei, Regard) che ho personalmente curato per l’Archivio Storico del Senato della Repubblica.

Intervista di Carla Guidi, da http://www.abitarearoma.net/

dalla quarta di copertina:

Duecentosettantuno giorni di occupazione nazista, migliaia di caduti civili e militari, quasi quattromila partigiani inquadrati nelle organizzazioni armate di Pci, Psiup e PdA, centinaia di azioni di guerra e sabotaggio compiute quotidianamente. Questa è stata la Resistenza a Roma: una guerriglia urbana di nove mesi organizzata dai reparti d’avanguardia delle forze antifasciste, i Gap e le Sac, e resa possibile dall’appoggio della popolazione civile. La ricostruzione documentale degli eventi che l’autore offre, svincolata dalla retorica celebrativa, restituisce non solo il contesto storico in cui nacque la guerriglia nella città ma soprattutto le sue contraddizioni, i suoi slanci, i suoi limiti e la sua necessità militare, politica e morale. Le drammatiche vicende della «Città Aperta», iniziate con i seicento caduti a Porta San Paolo e chiuse dalla strage di La Storta, furono caratterizzate da una guerra partigiana che rifiutò l’ordine nazista su Roma e fece della Resistenza armata la leva storica «costituente» in grado di conferire ai cittadini un nuovo protagonismo all’interno della sfera pubblica, facendo della guerriglia urbana una delle radici fondamentali della Repubblica. All’interno del perimetro urbano della capitale, il Partito comunista, il Partito socialista e il Partito d’azione, si dotarono di reparti armati (i Gruppi d’Azione Patriottica e le Squadre d’Azione Cittadina) che diedero vita ad un conflitto asimmetrico, direttamente collegato con le forze Alleate, in grado di infliggere all’esercito nazista gravi danni strategici e pesanti perdite materiali. In ogni zona della città, centinaia di azioni di guerriglia e sabotaggio vennero realizzate dai partigiani delle formazioni di Pci, PdA e Psiup lungo tutti i nove mesi di occupazione, confliggendo apertamente contro l’ordine pubblico criminale dei nazifascisti gestito attraverso la pratica militare della «guerra ai civili» fatta di rastrellamenti e deportazioni (carabinieri, ebrei, quartieri popolari), di stragi (Pietralata, Forte Bravetta, Fosse Ardeatine, La Storta) e di “camere di tortura” (via Tasso e le Pensioni Oltremare e Jaccarino). La Resistenza romana ruppe, con la «irregolarità» propria della guerriglia urbana, il monopolio della forza esercitato dalle truppe «regolari» tedesche e rappresentò il fattore politico-militare più importante ed incidente della storia contemporanea della città. Le otto zone in cui i tre partiti della sinistra del CLN divisero la capitale divennero campo di battaglia accidentato e pericoloso per nazisti e fascisti grazie alla solidarietà, al sostegno fattuale e all’appoggio ideale della popolazione civile (elemento indispensabile alla sopravvivenza di qualsiasi guerriglia) che permise ai partigiani di ricevere protezione e collaborazione in tutti i quartieri della città e di combattere un nemico molto più forte per numero, armamento e risorse. Una rottura del monopolio della forza che produsse una reazione delegittimante da parte degli eserciti occupanti e che, se immediatamente richiama la differenza tra soldato in divisa e combattente in abiti civili, su un piano più ragionato deve essere collocato, da un lato nel quadro della «guerra totale» di cui gli stessi eserciti nazifascisti si resero unici protagonisti, e dall’altro dentro «la ragione forte» per la quale «un popolo che vuole conquistarsi la sua indipendenza non può limitarsi all’uso dei mezzi militari consueti».

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Lettera agli ex iscritti al Pci folgorati dal renzismo

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Caro ex iscritto al Pci, leggimi pure (anzi, me lo auguro) se sei tra coloro che oggi vedono nel Pd una pur lontana parentela con quel grande partito. Non siete tantissimi ma ci siete, alcuni vivacchiano sconsolati, altri propugnano il nuovo Ottocento che avanza. Mi rivolgo a te con lo spirito fraterno che avevamo un tempo e che ci aiutava a capire meglio le cose (la realtà effettuale, delle cose come cioè effettivamente sono) non per accettarle ma per cambiarle. Concretezza e realismo con l’utopia. Mi spiace molto vedere come questi 25 anni senza il Pci siano stati sufficienti per rottamarne la sua tradizione, la storia, la prassi, il modo di lavorare. Cinque lustri riempiti dal nulla e dai progressivi smottamenti dei due partiti maldestri eredi: quel Pds ancora smarrito e quei Ds già a rischio di scalate ostili (in Sardegna avvenne un’Opa maligna da manuale, come un Alien dentro il corpo).
Poi è arrivato il Pd, quel pacco di buoni sentimenti dove il conflitto capitale lavoro era sparito per far posto a Jovanotti e ad altre leggerezze da partito liquido. Per diventare successivamente ciò che è ora: un comitato elettorale al servizio di un capo che propugna politiche legate alla finanza e alla grande industria. Sarebbe stato indigeribile per te, un tempo. Oggi non più. Sei stanco, avevi voglia di vincere cambiando casacca? Oggi mi chiedo che cosa ti sia accaduto, quale trasformazione tu abbia subito, che devastazione culturale abbia dovuto vivere per essere diventato ciò che sei ora. Come se sovrapponessi le tue personali debolezze nella sconfitta di una storia e di un avvenire.
Non offenderti, dunque, ma ascoltandoti o leggendo quanto scrivi sui social – che pena scorrere le due righette di una donna banalissima, un tempo iscritta al Pci, che annunciando la sua conversione al Sì dice che “anche la Costituzione ha frenato il Paese” – penso che una trasformazione così radicale debba essere studiata. A questo punto sono costretto ad ammettere che il grande partito che fu e i suoi tardi epigoni avevano già smarrito una certa capacità di formazione e di selezione. La realtà di oggi è che sei finito dall’altra parte. Lo accetto, va bene. Ma non ti accontenti di indossare il cilicio e far finta di aver vissuto un dramma interiore. Come se il passato fosse l’Invasione d’Ungheria e tu sovrastato dal dramma dell’appartenenza. Macchè. Sei come quei preti spretati che si trasformano in feroci anticlericali e assomigli a quei cinici che dopo la militanza nei gruppetti estremistici, da un giorno all’altro abbandonarono gli slogan rivoluzionari per passare armi e bagagli alla corte di Bettino, poi a quella di Silvio per salire infine, pur attempati ma esperti, al soglio di Matteo. Ricordi quanto li abbiamo criticati, contestati, giurando che mai noi saremmo diventato così. Come così? Come voltagabbana. Ora predichi le stesse cose che diceva la destra o la Confindustria e allora, comincio a pormi più di un problema sulla tua onestà intellettuale.
Ricordo bene le parole che ci dicevamo, i libri che studiavamo, gli articoli di giornale che leggevamo per capire. In quelle sezioni di partito fumose e cariche di umori e passioni. Dove abbiamo incontrato operai e braccianti, insegnanti e impiegati, disoccupati e avvocati. Erano concreti e decisi, coraggiosi e sognatori. Che cosa ci raccontavamo, dunque, che oggi non ti piace più? Provo a dirlo. Ad esempio che il sindacato in quanto organizzazione collettiva era insostituibile e i diritti dei lavoratori la stella polare? Che la volontà di battersi per un mondo migliore, non fatto di sogni ma concretissimo, era l’imperativo politico? Aspetta, non ho finito… Ricordi anche il mito dell’onestà? Lo sbandieravamo e la notte attaccavamo quei manifesti orgogliosi “Il Pci ha le mani pulite. Chi può dire altrettanto?”. Oggi invece difendi Verdini, Alfano e il tuo partito ha eserciti di inquisiti.
E non avrai dimenticato della lotta strenua contro l’opportunismo (dal dizionario: sostantivo maschile che descrive “la condotta di individui o gruppi che, avendo di mira soprattutto il proprio tornaconto, ritengono conveniente rinunciare ai propri principi e accettare compromessi più o meno onorevoli”). Mai opportunisti dicevamo, sempre noi stessi pur capaci di fare intese e stringere alleanze. Mica eravamo idioti. Ci consideravamo anche un’isola di persone per bene in un mare di malaffare. Forse esageravamo perché onesti, per fortuna, ce n’erano ovunque. Ma davanti agli scandali che scuotevamo la Repubblica eravamo l’unica certezza. Vivevamo la religione della diversità e, a dire il vero, diversi lo eravamo. Magari era un’illusione. Certamente puliti, onesti, combattivi, patrioti, rigorosi. Legati al dovere. Ricordo che un paio dei nostri sorpresi con le mani nella marmellata furono allontanati senza tanto clamore. Guardavamo agli altri con rispetto ma consci della nostra diversità. Ridevamo delle degenerazioni correntizie di Dc e Psi, oh quanto ridevamo. Ricordi, amico mio, che discutevamo a lungo per capire le differenze tra morotei e dorotei, nuove cronache e corrente del golfo. E dei socialisti cercavamo di capire la crescita craxiana, le debolezze dei lombardiani, l’arrivismo modernista dei martelliani? Ci avevano insegnato il metodo: mai schematizzare, mai generalizzare, mai confondere i conservatori con i reazionari etc. E a proposito di dovere non avrai scordato quanto abbiamo fatto contro i violenti, l’eversione, il terrorismo.

Su tutto si poteva scherzare ma non su due o tre cose.

La prima, la Resistenza. Era uno dei valori fondamentali, ad essa guardavamo con devozione e rispetto, immaginando che cosa avremmo fatto noi in quei frangenti. Sentendoci “nani issati sulle spalle dei giganti”. Potevamo noi paragonarci a Pajetta o a Eugenio Curiel? La nostra gratitudine era immensa e allo stesso tempo non abbiamo mai voluto una Resistenza prigioniera del paradigma del fallimento perché non aveva conquistato il socialismo. Ricordi che lo spiegavamo, anche con qualche ceffone pedagogico, a quei saccenti estremisti che ci dicevano che la Resistenza non aveva avuto lo sbocco rivoluzionario per colpa di Togliatti? Guardavamo l’elenco delle formazioni partigiane, gran parte delle quali garibaldine, i nomi dei gappisti, le loro gesta, i caduti. Ed eravamo grati, moltissimo, del loro coraggio e della loro scelta. Di questo ci onoravamo.

La seconda cosa che per noi rappresentava la carta d’identità e dalla quale traevamo legittimazione come partito era la Costituzione. L’ha firmata Terracini, uno di noi, dicevamo spavaldi e orgogliosi! E tra i costituenti ma in ogni dove a costruirla quella Costituzione c’erano stati Togliatti, Longo, Pajetta, Amendola, Negarville, Scoccimarro, Gullo, Renzo Laconi e Velio Spano e Nilde Jotti, Camilla Ravera, Teresa Noce. Quella Costituzione in nome della quale le masse povere e sfruttate lottavano e si battevano, colpiti per questo dalla mafia e dalla repressione, a Portella della ginestra, a Modena, Avola, Reggio Emilia. Ricordi quei manifesti nelle nostre sezioni con l’elenco dei segretari delle camere del lavoro uccisi dal piombo di Scelba?

Il terzo punto che per noi era intoccabile era la figura del segretario generale. Noi avevamo bandito il culto della personalità, guardavamo con fastidio i riti della nomenklatura sovietica. Tuttavia il segretario generale, era figura abbastanza sacrale perchè riconosciuta, rispettata. Ma non si trattava di un padre padrone. Togliatti ad esempio fu messo in minoranza in direzione, Berlinguer non ebbe vita facile con i miglioristi sempre alle calcagna. Però c’era rispetto, passione, amicizia. Ci piaceva Enrico, perché era onesto, un comunista rigoroso e inflessibile. Che parlava al cuore e alle menti. Ci piaceva quell’uomo piccolo che aveva fatto risuonare la sua voce sarda nell’immensa sala del palazzo dei sindacati a Mosca, parlando di democrazia come valore universale. E quanto ci era piaciuto Berlinguer, in quella strenua lotta contro Craxi sulla scala mobile o al fianco degli operai della Fiat. A me personalmente era piaciuta la sua analisi sulla situazione italiana e la proposta del compromesso storico oltre la sua fermezza granitica contro il terrorismo.

Dicevamo: prima l’interesse generale, poi quello di partito. Dicevamo: i sindaci nostri devono essere diversi, diversissimi. Novelli, Valenzi, Zangheri, Petroselli e decine di altri meno noti, erano diversi. La sinistra voleva dire asili nido, trasporti, equità, scuola e sanità pubblici, trasparenza amministrativa. Tra un sindaco della Dc e uno del Pci c’era una differenza antropologica. A Roma ad esempio non potevi non vedere l’abisso tra Darida e Argan o Petroselli. E a Napoli tra il laurismo clientelare rispetto a Maurizio Valenzi.
Ora ti guardo amico mio. E vedo che ingoi tutto, anche il fiele. Ora sei nel Pd, un partito che vuole trasformarsi in Partito della Nazione. Dove Verdini e Alfano possono trovare cittadinanza come te, perché quella formula tutto raccoglie. Gramsci (ricordi?) aveva insegnato che i partiti sono la nomenclatura delle classi. E noi a quel semplice concetto di rappresentanza ci siamo ispirati. Partito con forti connotazioni, di classe ma non solo, che guardava all’interesse nazionale. E ora? A che cosa credi? Magari in qualche vostro circolo avete appeso un ritratto di Berlinguer, incuranti della vostra abissale alterità.
Amico mio che tristezza vedere in tv ministri di un governo il cui premier è pubblicamente lodato dalla Confindustria e dagli organismi finanziari per aver stracciato lo Statuto dei lavoratori e abolito l’articolo 18. Ricordi quante battaglie anche insieme a Cofferati? Tu magari eri li al Circo Massimo con due o tre milioni a dire che Berlusconi era cattivo. Ora invece stai zitto, anzi applaudi all’ondata di licenziamenti, al terribile jobs act, allo smantellamento della scuola e della sanità pubblica. Hai accettato che il tuo premier, figlio di una vischiosa stragione post dc – che dei La Pira nulla aveva ma nemmeno di Moro – frequenti solo industriali e finanzieri. Che attacchi così duramente la Cgil, irridendola e offendendo il sindacato. Arrivando a contestare persino l’Anpi, l’associazione dei partigiani e degli antifascisti con toni orrendi.
E sei arrivato sin qui, fin sulla soglia di un seggio, a guardare chi si batte per la Costituzione con un fastidio irridente. Tu vedi ora la Carta come un orpello del passato, un fastidio, un ostacolo. Ma a che? Alla modernizzazione, assicuri, ripetendo come un pappagallo le baggianate del “basta un Sì” . Alla “velocità” e a chissà a quali altre idiozie. Credi a tutto e non capisci ciò che c’è dietro la revisione costituzionale, non ti rendi conti di quanta prepotenza odiosa si riverserà all’Italia se dovesse passare.

Certo che vederti ora andare a braccetto con Lotti e Boschi, Guerini e Ciaone Carbone, applaudire Renzi e ridere alle sue barzellette, giustificare le sue bugie, non vergognarti delle sue volgarità e della sua arroganza, allora penso che davvero tante cose siano accadute e molte abbiano lasciato un segno. In pratica caro amico, o ex amico a questo punto, tu ti sei arreso. Non vedi orizzonti del cambiamento. Non accetti che qualcuno si batta per costruirlo. Per te tutto ciò in cui abbiamo creduto è vecchio, obsoleto e merita un sorrisino di circostanza. E guardi con ammirazione Renzi e le sue slides, Renzi e le sue gradassate, Renzi e il suo modello di partito conquistato con primarie che puzzavano assai. In pratica, hai tradito.

Comunque amico mio, non tutto è ancora perduto. Ma se passa il tuo livido e cinico crepuscolo politico, sarà certamente un’Italia peggiore. Sei tu il conservatore non io, stai riportando indietro l’Italia di un secolo, anche se 4.0 e con le slide.

Fraterni saluti

Vindice Lecis (http://www.fuoripagina.it/)

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Le donne che ci hanno liberato

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Il Filmfest di Torino garantisce sempre belle scoperte. Questa volta, grazie al documentario “Nome di battaglia: donna” di Daniele Segre, il bello sta nel film e nelle vite che racconta. Ma c’è anche un lato brutto venuto alla scoperta: in 70 anni di studi storiografici sulla Resistenza, non c’è niente di sistematico e completo sui «Gruppi di difesa della donna e di assistenza ai combattenti».
Biografie (o autobiografie) di singole partigiane ce ne sono, ma una vera complessiva documentazione su cosa siano stati, quante e chi vi abbia partecipato, cosa abbiano fatto, questa non è mai stata messa a punto. Un buco storiografico enorme, che si riflette su tutta la straordinaria vicenda della guerra di Liberazione, perché marginalizzare il ruolo avuto dalle donne significa in qualche modo amputare l’intero fenomeno di una specificità fondamentale: del connotato corale, sociale, ancor prima che tradizionalmente militare, di quella lotta.
Si deve all’Anpi di Torino, e alla sua attuale presidente, Maria Grazia Sestero, se, con il convegno nazionale tenuto alla fine del 2015, dedicato a questa memoria si è fatta finalmente luce su questa ennesima «distrazione» relativa alla presenza delle donne nel mondo. Il film di Segre è una prima correzione.
«Quel nome dei nostri Gruppi, che usa le parole “difesa” e “assistenza”, non mi è mai piaciuto», confessa nel film sin dalle prime battute Marisa Ombra (IX Divisione Garibaldi, operativa nelle Langhe, già a 16 anni partecipe degli scioperi del marzo ’43; poi, e a lungo – quando io l’ho conosciuta – dirigente dell’Udi nazionale e, infine, vicepresidente dell’Anpi). Le donne, infatti, non si difendevano né facevano le crocerossine: combattevano.
Lo raccontano con semplicità, spiritose e grintose, otto donne piemontesi protagoniste del film. Quasi tutte entrate nelle fila della Resistenza in fabbrica, dove molte erano arrivate giovanissime. «Io, a 13 anni, e dovetti falsificare i documenti perché per entrare ne avrei dovuto avere 14 – racconta Enrica Core – Adesso sono grassissima, ma allora ero un fuscello e perciò mi chiamarono Fasulin. La prima volta che presi in mano una mitraglietta cominciò a sparare in aria da sola che sembravo una contraerea. Me la tolsero subito. Poi imparai». Fasulin è entrata a Torino dal Monferrato alla testa della III Divisione Garibaldi il 26 aprile ’45.
«Io invece il mio nome di battaglia me lo sono scelta da sola: quando arrivai in montagna c’era un omaccione che si era ribattezzato Pantera. Allora io ho deciso di chiamarmi Tigre». A parlare è Carla Dappiano, anche lei in fabbrica fin da quando aveva 13 anni, alla Westinghouse. «Il mio – dice – era il solo salario che entrava nella nostra famiglia, poverissima. Capii subito che la Resistenza era la mia parte: per liberarsi dal regime, dai tedeschi, dalla guerra, ma in primo luogo dalla fame».
Operaia-bambina pure Maria Airaudo. Racconta di quando, nel ’40, tutta la popolazione del suo paese del cuneese, proprio vicino al primo fronte, quello italo-francese, fu chiamata ad adunarsi nel cortile della scuola elementare per ascoltare la dichiarazione di guerra. «Non c’era nessuno, ma proprio nessuno che, nonostante quanto si disse, abbia applaudito», ricorda. La sua guerra di liberazione Maria l’ha fatta in Val Luserna. Ed è lì che è stata ferita.
Nel marzo ’45 catturarono le due sorelle Vera e Libera Arduino. Le portarono alla Caserma di via Asti e dopo averle pesantemente torturate le fucilarono alla Pellerina. Ma il giorno seguente, dopo che Carmen Nanotti, che operava nelle Sap (Squadre di Azione Patriottica) era riuscita a dare la notizia, sul luogo della tumulazione c’erano quasi duemila donne a salutarle. Scappate subito dopo perché stavano sopraggiungendo i tedeschi. Carmen era francese, arrivata in Italia («già comunista», dice ) solo a guerra cominciata, e in fabbrica, le Carrozzerie Fiat, i compagni diffidavano di lei perché temevano facesse finta di non sapere l’italiano per spiare i loro colloqui.
Dalla Francia, perché figlia di un esiliato politico, veniva anche Gisella Giambone. Rientrato in patria per combattere nella Resistenza, il padre, membro del primo Comitato di Liberazione Nazionale del Piemonte, fu fucilato al Martinetto nel ’44. «Ho sentito che dovevo prendere il suo posto e sebbene avessi poco più di 12 anni i compagni della brigata Curiel si fidarono. La mia età, anzi, fu molto utile, nessuno sospettava che portassi armi e volantini in giro per la città».
Maddalena Brunero, invece, la Resistenza l’ha incontrata in parrocchia, nella Gioventù femminile dell’Azione Cattolica (anche questa organizzazione aderiva ai Gruppi di difesa delle donne) di Settimo Torinese dove era sfollata con la famiglia. La madre, operaia alla Manifattura Tabacchi, metteva con le compagne una polvere micidiale nelle forniture di sigarette destinate alle caserme tedesche. Maddalena trasportava armi e volantini in città. Rosi Marino stampava il materiale clandestino con un ciclostile che poi veniva nascosto in un buco del muro. «È ancora lì – riferisce – potrebbe servire di nuovo». A lei i fascisti la presero e si fece molti mesi di carcere. Finì meglio del previsto, perché fu liberata grazie a uno scambio di prigionieri proprio alla vigilia della Liberazione.
Non tutte le protagoniste di questo straordinario film sono potute venire alla proiezione: Carmen è morta che la pellicola era stata appena finita di girare; Marisa, che abita a Roma, si è ammalata. Fasulin non ce l’ha fatta ad arrivare dal Monferrato. Le cinque novantenni arrivate all’appuntamento hanno fatto al meglio la loro parte nel cinema affollatissimo, aggiungendo dettagli e battute di spirito. Si erano vestite tutte con ricercatezza e persino con qualche civetteria. Ma non serviva, se lo scopo era quello di apparire ancora giovani. Bastava il loro modo di raccontare, i loro giudizi sul presente, a farle apparire per quel che sono: non ex partigiane, ma tuttora partigiane. «Noi eravamo e siamo arrabbiate – ha detto Carla Dappiano – Ai ragazzi di oggi mi sembra manchi proprio la nostra rabbia».

Luciana Castellina, Il Manifesto del 25/11/2016

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La tessera dell’Anpi alla dem Puppato e la differenza tra il parteggiare e il servire

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Non vorrei mai far parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come me. (Groucho Marx)

Io vorrei davvero capire per quale oscuro motivo qualcuno (in questo caso l’onorevole DEM Laura Puppato) debba avere il diritto di iscriversi a un’associazione di cui non condivide i valori, davvero. Mi spiego: la Puppato ha acceso ieri l’ennesimo can can lamentandosi del fatto che l’Anpi le abbia rifiutato la domanda di iscrizione spiegando di non volere tra suoi associati un’esponente politica di rilievo nazionale che ha deciso di spendersi per una riforma costituzionale che l’associazione non condivide.
Appena avuto notizia del rifiuto ovviamente sono partiti gli squadristi dal ditino celere (il senatore Esposito in primis e poi a seguire molti altri democratici) per denunciare il fascismo dell’associazione partigiani. Proprio così: “squadristi” li hanno chiamati. Ogni tanto penso che se qualcuno ci osservasse dallo spazio durante questa campagna referendaria sarebbe già fiaccato dai troppi conati per labirintite. Ma tant’è.
Comunque, non entrando qui nel merito della decisione dell’Anpi, non mi stupisce più di tanto che i componenti del Pd rimangano basiti di fronte alle posizioni di chi ostinatamente decide di tenere la propria posizione. Questi che sparano a palle incatenate contro l’Anpi del resto sono quello stesso partito che ha deciso di rimuovere (temporaneamente, eh) i propri deputati che in commissione non garantivano voti servili per la modifica della legge elettorale; sono gli stessi che oggi sono contro l’Europa e ieri mettevano il “ce lo chiede l’Europa” in tutte le salse; sono gli stessi che hanno votato contro la riforma costituzionale del 2006 insieme al Movimento Sociale e oggi vedono Casapound ovunque nelle tasche degli altri; la Puppato e quegli altri sono quelli che stanno deliberatamente spaccando un Paese in nome della Costituzione che è stata scritta per ricucirlo.
Fondamentalmente la Puppato forse non ha bene in mente la differenza tra il parteggiare e il servire. Il servitore indossa (come lei) i panni dell’agente provocatore per alimentare ogni giorno un caso che possa alzare la polvere sul merito della riforma mentre chi parteggia tiene la barra dritta. Forse esagera o forse no ma parteggiare, cara Puppato, significa avere ben presente in testa da che parte stare e decidere di farsi presidio senza seguire le convenienze. Colui che parteggia, in italiano, è un partigiano. Appunto.

Buon venerdì.

(p.s. per quelli che qui sotto mi scriveranno “quindi sei d’accordo con la scelta di non dare la tessera Anpi alla Puppato?” dico che no, probabilmente non hanno fatto bene, io non l’avrei fatto, no. Ma rispondo subito che mi interessa la differenza tra parteggiare e servire, appunto. E che se la Puppato dice di essere orgogliosa della sua riforma ma di non apprezzare Smuraglia (che dell’Anpi è Presidente, per inciso), di non condividere le posizioni dell’associazione a cui si vorrebbe iscrivere e se la Puppato permette ai suoi compagni di partito di riempire di insulti l’Anpi forse c’è un problema di connessione, eh. Almeno che non voglia cambiare anche l’Anpi “da dentro”. Ma anche no. Dai. Su.)

Giulio Cavalli (https://www.left.it 11 novembre 2016)

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Nicoletta Dosio arrestata

Questo di seguito è il testo letto da Nicoletta fuori dal tribunale prima di entrare essere arrestata

Quanto tempo è passato da quando i Padri costituenti, ancora animati dal vento di Liberazione che spazzò via il nazifascismo e accese nuove, ahimè disattese speranze, dichiaravano che:
«La resistenza, individuale e collettiva, agli atti dei pubblici poteri che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino».
Quei diritti, quei doveri, per noi, per me, non sono un semplice slogan, ma ispirazione di vita e di azione.
Dalla prima misura cautelare inflittami, l’obbligo di firma, sono passati ormai quattro mesi. Ora, attraverso i successivi aggravamenti, sono giunta agli arresti domiciliari, che non sto rispettando.
Continuo la mia consapevole, condivisa, felice evasione contro provvedimenti preventivi che sono più che mai strumento di intimidazione, tentativo di minare una lotta giusta e collettiva, per questo irriducibile.
Evidentemente, il mio gesto di ribellione, che sono determinata a portare avanti fino in fondo, ha rotto lo schema di repressione che umilia le persone e le rende subalterne alle decisioni vendicative dei tribunali. La palese difficoltà del tribunale di Torino ad applicare quella che chiamano “l’obbligatorietà dell’azione penale” di fronte al mio pubblico e rivendicato “reato” di evasione è il maggior riconoscimento della forza di popolo che mi sostiene e insieme un messaggio attivo di fiducia e incoraggiamento per quanti subiscono arbitrii giudiziari che sembrano incontrastabili.
Un’evasione che vuole essere nuova tappa della lunga resistenza collettiva praticata dal movimento NO TAV contro i grandi, sporchi interessi del partito trasversale degli affari.
In questo mondo dove il dominio dei più forti sui più deboli si fa guerra, razzismo, sfruttamento, devastazione sociale e ambientale, gravissima emergenza democratica contro chi non si adegua, si aprono tribunali e carceri.
Oggi, nel vostro Palazzo, per l’ennesima volta, si processano, insieme ai cinquantatre compagni imputati, la Libera Repubblica della Maddalena e tutto il popolo NO TAV.
Anch’io sono parte di questo popolo, perciò sono qui, a testimoniare, come ho sempre fatto, complicità a compagne e compagni
Ho vissuto le giornate intense della Libera Repubblica, in cui si rafforzarono le radici della liberazione di Venaus e sperimentammo l’utopia realizzabile del ricevere da ognuno secondo le sue possibilità e del dare ad ognuno secondo i suoi bisogni.
Ero sulla barricata Stalingrado il 27 giugno 2011, a praticare la resistenza popolare contro gli armati e le ruspe giunte a sgomberarci. Ho visto e subito la violenza poliziesca. Ho percorso i sentieri della Clarea il 3 luglio. Ho praticato l’assedio collettivo al cantiere; con donne, uomini, anziani e bambini ho respirato le migliaia di lacrimogeni lanciati quel giorno.
Il ricordo e l’indignazione per tanta ingiustizia sono, insieme alle ragioni della opposizione comune contro le grandi male opere e il modello di vita e di sviluppo che le genera, alimento potente di una lotta che dura, si rafforza, si allarga e vincerà.
Non sono qui per costituirmi o per fiducia nella vostra giustizia: sarà la storia che ci assolverà.

Torino, 3 novembre 2016
Nicoletta Dosio

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La manipolazione della foto di Dane e gli storici

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La foto usata nella locandina ritrae la fucilazione di cinque ostaggi sloveni da parte delle truppe italiane durante l’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943). Si sa anche il giorno in cui la foto fu scattata, il 31 luglio 1942, e addirittura i nomi dei fucilati:
Franc Žnidaršič, Janez Kranjc, Franc Škerbec, Feliks Žnidaršič, Edvard Škerbec.

Perchè si continua ad usare questa foto in maniera colpevolmente sbagliata? Possibile che gli storici non si accorgano dell’errore fatto? Qui potete trovare tutte le manipolazioni di questa foto e la minuziosa ricostruzione della bufala e delle sue implicazioni internazionali.

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22 ottobre 1944: fine della Repubblica Partigiana dell’Ossola

I confini della Repubblica dell'Ossola

I confini della Repubblica dell’Ossola

La Repubblica dell’Ossola durò solamente 33 giorni. Un territorio di quasi duemila chilometri quadrati fu liberato dai partigiani e diventò un vero e proprio Stato con un governo, un esercito e una capitale: Domodossola. Fu un esperimento democratico che stupì il mondo intero perché venne realizzato all’interno di un paese in guerra.
Tutto cominciò nell’agosto del 1944, i partigiani della brigata Valdossola comandata dal maggiore Dionigi Superti, della brigata Beltrami agli ordini del capitano Bruno Rutto, della brigata Piave di Filippo Frassati e Armando Calzavara, e infine della brigata Valtoce del tenente Alfredo di Dio, intimano la resa a tutti i presidi tedeschi e fascisti stipati lungo la riva occidentale del Lago Maggiore. I tedeschi si arrendono subito, i fascisti invece combatteranno alcune ore prima di cedere le armi. Uno alla volta, i piccoli presìdi fascisti cadono. L’8 settembre 1944 l’intera Valdossola viene liberata, tranne Domodossola, che i partigiani, non senza esitazioni, decidono di liberare.
Il 9 settembre 1944 l’arciprete di Domodossola, don Luigi Pellanda, promosse un incontro al quale parteciparono i comandanti tedeschi e fascisti e i capi partigiani Dionigi Superti e Alfredo di Dio, per evitare inutili spargimenti di sangue. Sia i tedeschi che i fascisti decidono di lasciare Domodossola ai partigiani, a patto di poter evacuare con armi e familiari.
I partigiani accettano a condizione che siano da loro abbandonate tutte le armi non fabbricate in Germania. Appena Domodossola viene liberata, gli abitanti euforici si riversano per le strade sventolando il tricolore. Vengono aperte le frontiere con la Svizzera consentendo così ai giornalisti di tutto il mondo di poter documentare l’evento.
La controffensiva fascista venne sferrata all’alba del 10 ottobre, e alle 17 la prima colonna fascista entrava in Domodossola.
I fascisti schierarono circa 5.000 uomini, con tre cannoni, cinque carri armati e dieci autoblindo. I partigiani erano invece 3.000.La gran parte della popolazione abbandonò la Val d’Ossola per rifugiarsi in Svizzera lasciando il territorio pressoché deserto impedendo di fatto le forti rappresaglie che furono minacciate.
A tal proposito proprio il capo della provincia Enrico Vezzalini scrisse il famoso comunicato a Mussolini che recitava: “Abbiamo riconquistato l’Ossola, dobbiamo riconquistare gli Ossolani”. I partigiani che poterono trovarono rifugio in Val Sesia, dove si ricostituirono due formazioni partigiane che all’inizio del 1945 tornarono nell’Ossola e lottarono fino alla fine della guerra. La storia della Repubblica dell’Ossola è stata narrata nello sceneggiato di Leandro Castellani -Quaranta giorni di libertà- e dal libro di Giorgio Bocca -Una repubblica partigiana-.

Piero Malvestiti (1899-1964), combattente decorato della Prima guerra mondiale e antifascista cattolico che prese parte alla guerra di liberazione e al governo dell’Ossola, ricorda:

Ancor oggi la “Repubblica di Domodossola” […] costituisce l’eventus che ha caratterizzato – quale che sia stata la sua importanza militare – un poco tutta la Resistenza italiana […] Ben a ragione il Capo del Governo italiano, on. Bonomi, scriveva in quei giorni da Roma che i Patrioti della Valdossola “sono il simbolo dell’eroismo che pervade tutto il popolo italiano della battaglia per la sua redenzione”. […] La “Repubblica di Domodossola” prefigurava l’Italia di domani, ed era soprattutto un’aspra condanna e una sfida irriducibile. Paradossale, mentre il nazismo era ancora in Norvegia, in Danimarca, in Russia, in Olanda, nel Belgio in Francia, nell’Europa centrale, nei Balcani, in Grecia, in Italia, paradossale e assurdo che un pugno di uomini osasse sfidarlo al punto da istituire una “Giunta Provvisoria di Governo”.

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Moretto, il boxeur che uccideva le SS a mani nude

Pacifico Di Consiglio, detto Moretto

Pacifico Di Consiglio, detto Moretto

Quando il 16 ottobre 1943 i tedeschi imprigionarono gli ebrei di Roma ne sfuggì loro uno, che continuerà a braccarli fino all’arrivo degli alleati. Questa è la storia di Pacifico Di Consiglio, detto Moretto, l’ebreo romano che di fronte alle persecuzioni scelse di battersi. Nasce nel 1921 in una famiglia povera, cresce senza il padre e quando a 17 anni viene discriminato dalle Leggi razziali reagisce iscrivendosi ad una palestra di pugilato, assieme all’amico Angelo Di Porto. Battersi sul ring lo aiuta a sfogare la rabbia e anche ad allenarsi perché davanti ai fascisti non abbassa gli occhi.
A via Arenula lo conoscono tutti. Nel luglio del 1943 sfilano i gagliardetti, impongono il saluto e lui lo rifiuta. Una camicia nera lo affronta, tenta di colpirlo ma lui è più veloce. La seconda volta finisce nella stessa maniera. Lo inseguono e lui si dilegua a Trastevere, che è casa sua. Quando il Gran Consiglio rovescia Mussolini, va a cercare i fascisti nella sede di piazza Mastai.
All’arrivo dei tedeschi l’8 settembre parte verso le Marche, assieme a cinque amici, e quando vengono a sapere della razzia del 16 ottobre torna indietro. Arriva a Roma a piedi, si finge sfollato andando ad abitare in una vecchia casa in via Sant’Angelo in Pescheria. Gira per Portico d’Ottavia trasformato in deserto, guarda le case vuote dove prima vivevano parenti, amici, compagni di scuola. E decide di restare.
Sfida la sorte andando ad abitare nella sua vera casa. Vive sotto il naso di tedeschi e bande fasciste che mangiano al ristorante «Il fantino». Ne studia i movimenti e quando può, anche da solo, li aggredisce. Usa le armi da fuoco, che sa usare e smontare.
La polizia fascista gli dà la caccia e l’1 aprile lo cattura, grazie ad una spiata. Lo portano al comando di piazza Farnese assieme ad altri quattro ebrei. Sa cosa lo aspetta. Finge un malore, si fa portare in una stanza con la finestra e salta dal secondo piano. Lo seguono Salvatore Pavoncello, Angelo Di Porto e Angelo Terracina. Non lo fanno Angelo Sed ed un altro, entrambi moriranno ad Auschwitz. La caduta è pesante, si rompe un polso, arriva a Monteverde con un amico sulle spalle e si nasconde in un garage. Cammina per la città a piacimento, pur sapendo di essere braccato.
I tedeschi lo prendono a corso Vittorio e lo portano alla Magliana. Sa che vogliono ucciderlo ma sul retro dell’auto militare c’è un tubo di ferro. Quando aprono le porte per farlo scendere, è lui che li sorprende, colpendoli a sangue, per fuggire ancora.
I tedeschi gli attribuiscono l’uccisione, con armi e a mani nude, di più militari ed SS. Davanti al bar Grandicelli lo bloccano e finisce a via Tasso. L’interrogatorio è brutale. Vogliono sapere dove si trovano altri ebrei, ma lui non parla. «Finì che avevo le ossa rotte, ero coperto di sangue» ricorderà.
Trasferito a Regina Coeli il 4 maggio 1944, vi resta fino al 20, quando lo fanno salire con altri ebrei su camion diretti al Nord. E’ l’inizio della deportazione. Appena in aperta campagna, Moretto non ci pensa due volte. Si getta sfruttando una curva ampia. Lo segue il cugino Leone, 20 anni, che viene falciato dalle mitragliate.
Moretto non va a Sud, dove ci sono gli alleati, ma torna a Roma. E’ un amico non ebreo di Testaccio che gli dà rifugio. Si unisce ai partigiani e su ordine del Comitato di liberazione presidia Ponte Sublicio per evitare che i tedeschi possano minarlo. Fino all’arrivo degli alleati. Moretto va loro incontro il 3 giugno, aiutandoli a eliminare i cecchini tedeschi. Da quando Roma diventa libera ha bisogno di un anno per venire a sapere dei lager, della fine di famigliari e amici. Sceglie di trasmettere alle nuove generazioni la determinazione a battersi a viso aperto. «Per dimostrare che la nostra comunità è fatta non solo di lacrime e sangue ma di coraggio e orgoglio» come riassume la moglie Ada, detta «Anita» in omaggio al carattere garibaldino di Moretto, scomparso nel 2006.

(di Maurizio Molinari “La Stampa”)

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La GAP, di Dario Fo e Fiorenzo Carpi

Una canzone di Dario Fo e Fiorenzo Carpi del 1977, dallo spettacolo “Vorrei morire stasera se dovessi pensare che non è servito a niente”. Interpretata da Alessio Lega il 1° agosto 2010 in un fuoriprogramma a Luni (MS); dedicata alla figura e alle azioni del comandante partigiano Giovanni Pesce, detto “Visone”, scomparso nel 2007. E dedicata perfettamente anche all’Italia di oggi e al suo padronato. Ciao Dario, ci mancherai.

La G.A.P. quand’è che arriva
non manda lettere né bigliettini
e non bussa alla porta
sei già persona morta
che il popolo ti ha condannato.

L’ingegner della Caproni
il 2 gennaio arriva in tassì
arriva con due della Muti
sue guardie personali
e noi lo si va a giustiziare.

Quel traditor d’accordo con i tedeschi stava
a smantellar la fabbrica, le macchine spediva
tutte in Germania dai Krupp.

E per salvar le macchine
han fatto sciopero generale
il capo reparto Trezzini
e altri sette operai
li han messi a San Vittore.

È stato l’ingegnere
a fare la spia ma la pagherà
ci tiene tutti sott’occhio
il povero Trezzini
e gli altri li han fucilà.

Adesso tocca a lui, la GAP lo aspetta sotto
sotto ad un semaforo che segna proprio rosso
e al rosso si mette a sparar.

Pesce Giovanni spara però prima gli grida:
“È in nome del mio popolo ingegnere che ti ammazzo
con le tue guardie o no!”

In fabbrica fanno retate
torturano gente non parla nessuno
e trenta operai deportati
li chiudono nei vagoni
piombati diretti a Dachau.

Parlato: “E il 23 di aprile i tedeschi vanno a minare la fabbrica, vogliono farla
saltare prima di ritirarsi piuttosto che lasciarla in mano ai liberatori…”

Ma gli operai sparano, difendono la fabbrica
e salvano le macchine che sono il loro pane
e molti si fanno ammazzar.

Adesso siamo liberi,
nella fabbrica torna il padrone,
arriva un altro ingegnere
stavolta però è partigiano:
Brigata Battisti, Partito d’Azion.

Ma ecco al primo sciopero c’è un gran licenziamento
è stato l’ingegnere a cacciare via quei rossi
che la fabbrica avevan salvà.

‘Sta guerra di liberazione
domando di cosa ci ha liberato:
ingegnere padroni e capi
son tutti democratici
ma noi ci han licenziato
addosso ci hanno sparato
in galera ci hanno sbattuto
ma allora per noi operai
la liberazione l’è ancora da far…

(grazie a Riccardo Venturi)

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15 ottobre 1944: strage di Villamarzana

“Ricordo che alla sera si sentivano da lontano solo le loro voci che cantavano a squarciagola: ‘Con il sangue dei partigiani ci laverem le mani’. E così è stato”. Nazzarena Boaretto, il 15 ottobre 1944, aveva appena compiuto 16 anni, ma si ricorda nei dettagli gli anni della guerra, soprattutto quelli dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. I repubblichini, i nazisti dentro casa, i rastrellamenti, le deportazioni in Germania, le violenze, il coprifuoco, la caccia a chi aveva deciso che avrebbe combattuto per la Resistenza.
Ma lei, nata in provincia di Rovigo, si ricorda in particolare dell’eccidio dei martiri di Villamarzana. A cercare notizie sulla fucilazione di 43 partigiani, passati per le armi come rappresaglia dopo la cattura e la sparizione di quattro collaborazionisti, tra cui il figlio di un colonnello a capo di una caserma locale, la Silvestri, se ne trovano. Ma Nazzarena Boaretto, che oggi ha 88 anni e vive a Cervesina, nell’Oltrepo pavese, ha deciso di andare oltre e di mettere in fila i ricordi della ragazzina che fu.
Così ha scritto un libro, “Memorie di una vita“, se lo è autopubblicato distribuendolo tra amici e conoscenti e, a forza di passaparola, la voce dell’esistenza di questo volume che contiene anche fotografie si è diffusa. Dunque oggi Nazzarena torna nel Polesine, va nelle scuole, incontra i ragazzi e viene invitata anche all’Università di Padova. Perché la sua testimonianza riporta alla memoria una strage dimenticata, forse più di altre.
In quel pezzo di pianura che nel 1951 sarebbe stato sommerso da metri d’acqua del Po, fu sufficiente una lampada rimasta accesa perché i repubblichini puntassero su una cascina, a Castelguglielmo. Qui i partigiani nascosti furono riportati a Villamarzana, rinchiusi nella bottega del barbiere e, a gruppi di sei, trascinati in piazza dove finirono davanti a un plotone di esecuzione composto da dodici militari, per una metà in piedi e per l’altra in ginocchio. Poi i corpi furono lanciati sul cassone di un camion che se li perdeva strada facendo e buttati all’interno del cimitero di Villamarzana, senza essere seppelliti.
Dopo il massacro, i repubblichini non si accontentarono. Il giorno dopo fu preso anche il cugino di Nazzarena, Bruno Boaretto, catturato a causa di “una soffiata mentre si recava dalla morosa nel paese di Costa”. Preso a bottigliate, percosso e torturato con la fiamma delle candele sotto i piedi, alla fine crollò rivelando ai suoi aguzzini dov’erano sepolti i quattro fascisti. “Non appena confessò – scrive Nazzarena di Bruno – sicuro della sorte che gli era stata riservata, ebbe solo la forza di chiedere […] di essere ucciso sulla tomba di sua sorella [e] gli venne concesso”.
Poi fu preso il parroco del paese, don Vincenzo Pellegatti, che rischiò di essere ucciso sull’altare mentre celebrava la funzione del mattino, e il segretario politico di Villamarzana, Primo Murari, insieme al figlio e nipote, accusato di eccessiva compiacenza con i partigiani. Ci fu quindi la madre di due adolescenti, 14 anni uno e 15 l’altro. Il famigerato maresciallo “Bomba” le fece una proposta: “Scegli tu quale dei due figli vuoi che ammazziamo, sicuramente almeno uno dei due”. Ma la donna non ce la fece a decidere quale salvare.
Perché dopo tutti questi anni, in età avanzata e con i postumi di una frattura al femore, rimettersi in gioco per raccontare questa storia? “Lungi da me voler dare giudizi – scrive Nazzarena Boaretto all’inizio del suo libro – tanto meno fare considerazioni finali su ciò che è stato ed è accaduto nel bene (poco) e nel male (tantissimo)“. Il suo diario è “piuttosto un invito a tutti coloro che lo leggeranno oggi o negli anni a venire a prenderlo come un impegno morale affinché in futuro non possano più succedere cose come quelle di cui io stessa sono stata involontariamente testimone oculare […] rubandomi la gioia e la spensieratezza della mia giovinezza”.

Antonella Beccaria (http://www.ilfattoquotidiano.it/)

La ricostruzione storica degli eventi: https://lalungamarciadei54.wordpress.com/cenni-storici/

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