Avrò avuto tredici anni, quando sentii per la prima volta “The Partisan” di Leonard Cohen. E fu per caso, perché ero andato nel negozio di dischi per comprare “Suzanne”, che avevo sentito per radio, e che poi un amico avrebbe di nuovo e meravigliosamente cantato in italiano.
C’erano i “quarantacinque giri”, allora, e il “lato B” di “Suzanne” era appunto “The Partisan”. Non sapevo, e l’avrei scoperto molti anni dopo, che il testo era di un cugino francese, il partigiano Bernard. Ma quanto mi impressionarono alcune frasi di quelle canzoni… ricordo un confuso trasloco, a metà anni sessanta, da quella che era stata la casa di mia nonna. Dai bauli, e da nicchie sotto i bauli, erano ancora uscite vecchie giacche color kaki, e pacchi che mio padre e suo fratello avevano fatto sparire in fretta.
Da neanche vent’anni “era finita”: ma non è finita ancora adesso, la Resistenza.
So che sarò un po’ retorico, da storico mi piacerebbe ogni tanto parlare di storia, e invece mi ritrovo spesso a parlare delle “mie storie”, ma mi sembra che sia il caso, perché molti dei partigiani di allora, “dopo” sono stati un po’ troppo zitti, e adesso se ne stanno andando, uno dopo l’altro, ed è bene che figli e nipoti “che sanno” parlino loro, ed è forse il sentimento di questo dovere che mi spinge. La guerra non è mai davvero finita, mes amis. Ricordo bene i primi anni settanta, ah sì, gli “anni di piombo”, ed il mio stupore misto a rabbia nel vedere i più giovani di quanti erano stati partigiani (nella mia famiglia, le classi dal 1923 al 1927), giovani uomini che nei primi anni settanta avevano poco più di quarant’anni, che non facevano nulla, nulla per fronteggiare il mondo terribile e ingiusto che ci si parava di fronte. Credo sia stato per questo che abbiamo amato il Che: io avevo dodici anni quando fu ucciso, e ricordo la notizia bruciare come una ferita e insieme un incitamento alla lotta (l’ho detto che sarei stato forse un po’ retorico, et voilà…) “Mil voces de combate…”: Guevara era il partigiano che non si era arreso, neanche di fronte ad un comodo posto da ministro. Sulle montagne, ancora una volta…
Ricordo uno slogan un po’ barricadero e un po’ ingenuo, ad uno dei “miei” primi cortei, “compagni partigiani prendiamo il fucile, facciamo di nuovo il venticinque aprile”.
Già, bastasse un fucile, adesso: non era stato sufficiente neppure “allora”, difatti ci si è liberati dai fanfaroni in camicia nera, dai saluti romani (beh, quelli si continuano a vedere, eh sì…), ma “lo Stato”? Che successe allo Stato fascista?
È rimasto lì dov’era, con il beneplacito del P.C.I. d’allora, che barattò la sua compartecipazione al potere, le regioni “rosse” con l’acquiescenza. Si fanno delle bellissime statistiche, in Italia: andate a vedere quanti ufficiali, già in servizio sotto il ventennio e sotto la R.S.I., sono stati allontanati dopo il 1945, e vedrete che non potrete organizzarci neppure un incontro di calcio.
E quanti magistrati sono stati, se non giudicati a loro volta, almeno allontanati dall’ufficio? Neanche uno. E i vili, vilissimi docenti universitari che avevano giurato fedeltà al regime (su circa tremilacinquecento professori, solo tre si rifiutarono!)? Rimasero lì, al loro posto. Come i vili, vilissimi professori di liceo, come gli infami maestri e maestre elementari.
Così come tutti i settori della pubblica amministrazione, che di fatto è rimasta fascistissima fino a poco tempo fa (intendo proprio con le stesse persone, negli stessi posti, abbiamo dovuto subire persino la vergogna di un Mirko Tremaglia ministro…). Alla faccia nostra, ma soprattutto alla faccia della “Repubblica nata dalla Resistenza”, i camerati della deputata Alessandra Mussolini le riservarono, quando giunse in Parlamento, lo stesso posto che fu del nonno Benito quando venne eletto deputato.
E tutto questo continua a succedere, tra i velluti e gli ori del fascistissimo parlamento di Roma. E già, facciamo di nuovo il venticinque aprile, ma questa volta sul serio, per favore.
Chi c’era sa che cos’è stato riprendersi Venaus, l’otto dicembre 2005. Nevicava un po’, e nell’aria fredda io ero ad una curva sopra la strada del paese, e i movimenti delle forze in campo sembravano un enorme “risiko”, dal vero però. Blu la polizia, colorata la gente, neri come sempre i carabinieri, e poi fumogeni di tutti i colori e il bianco della neve.
L’otto dicembre di sessantadue anni prima, alla Garda, dall’altra parte della valle, giurava la prima banda partigiana. Due giorni prima, a Torino, avevamo occupato i binari di Porta Nuova, mentre l’intera valle di Susa era bloccata e presidiata, non si entrava e non si usciva, se non su sentieri non segnati sulle carte di chi comanda.
Tutta la forza pubblica inviata in Val di Susa, la più grande mobilitazione militare contro i civili in Europa che mai si fosse vista: quasi quasi potremmo prenderci il Municipio, e buttar fuori l’inutile Chiamparino, pensò qualcuno tra di noi. Insurrezione, un sogno che diventava reale. Non è successo, ma non era male il consiglio di Errico Malatesta: “alla prima sommossa dar giù, senza perdita di tempo”.
E se l’avessimo fatto di nuovo, davvero, il venticinque aprile? Ho avuto la fortuna di conoscere chi diede, allora, alla radio clandestina, il segnale dell’insurrezione: “Aldo dice ventisei per uno”, e i comandanti di brigata, anche i ventenni che come mio padre, con quasi nessuna esperienza militare, si erano trovati con cinquanta, cento uomini di fronte ad uno dei più forti eserciti del tempo, sapevano che il giorno dopo sarebbero scesi in quelle “belle città” che erano state lasciate per troppo tempo al nemico. “Dar giù, senza perdita di tempo”.
Già, la festa d’aprile.
C’è un paese, vicino a casa mia, oltre la montagna, un paese che si chiama Bessans, che fu incendiato dai tedeschi il 13 settembre 1944. C’erano un po’ troppi partigiani, da quelle parti, e così fuoco alle case, alè! Ma quanti si erano dati alla macchia ci rimasero, case o non case.
Maquisards. È una parola che mi piace più che partigiani, ebbene sì. C’è una strada dedicata a loro, a Bessans. Rue des Maquisards.
Forse è solo il nome di una via, come qualche “Viale dei Partigiani” dell’italietta senza memoria che nella sua toponomastica balorda celebra alla rinfusa vittime e assassini (ahi, quante via Umberto I, via Bava…).
Ma sì; forse è solo il nome di una strada, o forse no: Mi piace pensare che sia lì ad indicare davvero una strada che bisognerebbe avere la testardaggine d’imboccare contro un mondo che vuol convincerci che va tutto bene (…quando va bene) o che abbiamo già perso (…quando va male). Neve sul neroblu cattivo di un confuso gruppo di elmetti e manganelli, quell’otto dicembre 2005. È con un atto di forza che ci siamo ripresi Venaus, hanno avuto paura perché lì mica era Genova, per terra ci sarebbero rimasti loro, e lo sapevano. Giù da quei sentieri che scendevano dalla montagna ci erano passati, nei tempi, boscaioli, contrabbandieri e partigiani.
Quel giorno i partigiani erano tornati.
Bella strada, la Rue des Maquisards.
Jacou, Maquis du Mont Cenis
da Nunatak N.8 2007 – Rivista di storie, culture, lotte della montagna