Così fu condotto l’attacco in via Rasella

Rosario Bentivegna e Carla Capponi

Rosario Bentivegna e Carla Capponi

Da un’intervista all’Europeo del 1964, a Carla Capponi e Rosario Bentivegna, due dei protagonisti ci parlano  dell’attacco gappista in via Rasella e della rappresaglia che ne seguì.

CARLA CAPPONI – L’idea dell’azione di via Rasella la ebbe uno del nostro gruppo, Mario Fiorentini. Abitava lì vicino, in via Capolecase, e ogni giorno vedeva passare quella colonna tedesca. Passavano verso le 14: cantando in coro quei loro inni tristi e insolenti, marciando a passo cadenzato. Erano reparti di polizia armata, preceduti da una pattuglia di sei o sette con il mitra spianato, seguiti da una mitragliatrice montata su un carretto. Cominciammo a pensare come attaccarli. Li pedinammo. Cronometrammo il tempo che impiegavano a sfilare. Calcolammo che facendo esplodere una carica di tritolo nella parte alta di via Rasella, dove c’erano meno negozi e quindi minor pericolo per i civili, potevamo colpire la colonna a metà e danneggiarla seriamente.
ROSARIO BENTIVEGNA – Stavamo ancora studiando la situazione quando il Comando ci chiese che cosà potevamo fare per il 23 marzo. Era una ricorrenza fascista, e quel giorno ancora più del solito volevamo far sentire la presenza dei partigiani. Allora proponemmo l’azione di via Rasella, che venne approvata dalla giunta militare del Comitato di liberazione nazionale, composta da Giorgio Amendola, Riccardo Bauer e Sandro Pertini. Perfezionammo il piano. Era questo: il tritolo sarebbe stato nascosto in un carrettino con bidoni metallici della nettezza urbana; io, vestito da spazzino, dovevo piazzare il carretto in via Rasella, aspettare l’arrivo della colonna tedesca, e a un cenno di Franco Calamandrei accendere la miccia con la pipa; dovevo poi sopravanzare la colonna, voltare l’angolo della via Quattro Fontane dove mi avrebbe aspettato Carla con un impermeabile bianco per coprire la mia divisa da spazzino, e fuggire. Contemporaneamente, dalla via del Boccaccio, un altro gruppo composto da Raoul Falcioni, Francesco Curreli, Silvio Serra doveva attaccare con speciali bombe a mano i resti della colonna tedesca, colpirla e ripiegare. I gappisti Fernando Vitaliano, Pasquale Balsamo e Guglielmo Blasi (che poi tradì), il comandante Carlo Salinari ed altri dovevano svolgere azione di collegamento e di copertura.
I diciotto chili di tritolo necessari vennero forniti, come gran parte degli esplosivi, dalle formazioni clandestine dell’Esercito che raccoglievano i militari sbandati. La carica esplosiva venne preparata da Carlo Salinari, oggi ordinario di fisica all’università di Napoli, da sua moglie e da noi, che eravamo diventati tutti esperti artificieri. La cassetta metallica destinata a contenerla ce la fornirono gli operai delle Officine del gas di Roma. Il carrettino della nettezza urbana lo rubammo da un deposito vicino al Colosseo. Alcuni dipendenti del Comune ci procurarono la divisa da spazzino. Lavorammo a preparare l’azione per circa dieci giorni.
L’EUROPEO – Nelle ore precedenti l’azione, che cosa avete fatto?
CARLA CAPPONI – Abbiamo finito di preparare gli esplosivi, credo. Lo facevamo sempre all’ultimo momento perchè era la cosa più pericolosa: un errore poteva far saltare tutto il palazzo. In quei giorni eravamo nascosti in una cantina di via Marco Aurelio, vicino al Colosseo. Il portiere, Duilio Grigioni, era dei nostri e ci proteggeva.
ROSARIO BENTIVEGNA – Mi pare che abbiamo anche dormito. Eravamo sempre morti di stanchezza: la lotta clandestina si faceva a piedi perchè i tedeschi avevano proibito l’uso delle biciclette, spesso i tram non funzionavano e ancora più spesso non avevamo i soldi per il biglietto. Così camminavamo, per decine di chilometri ogni giorno. E non è che si mangiasse tutti i giorni: quattro giorni su sette era già una buona media.
L’EUROPEO – Ma qual era il vostro stato d’animo? Eravate in ansia, avevate paura, vi sentivate soli? Avete parlato tra di voi?
CARLA CAPPONI – Non mi ricordo se abbiamo chiacchierato, in quelle ultime ore. Certo eravamo nervosi, preoccupati. Non solo per l’azione imminente, per tante cose. Spesso i materiali erano scadenti, le armi si inceppavano, detonatori e percussori non funzionavano, le micce si spegnevano oppure bruciavano troppo rapidamente. Pochi giorni prima, per esempio, avevamo assalito due camion tedeschi sulla via Tor de’ Schiavi, di notte. Eravamo in sei, avevamo il mitra: be’, tutti e sei i mitra si erano inceppati, e non ci avevamo lasciato la pelle per miracolo. Anche provando e riprovando tutto cento volte, non si poteva mai stare tranquilli. E poi c’era il timore che ciascuno aveva per la vita dell’altro.
L’EUROPEO – Mi scusi, quanti anni aveva?
CARLA CAPPONI – Tutti e due non avevamo ancora compiuto ventidue anni.
L’EUROPEO – E a ventidue anni non sentiva rimpianto per tutto quello che poteva lasciare, perdere? Che cosa faceva lei prima di entrare nelle formazioni partigiane?
CARLA CAPPONI – Io lavoravo al laboratorio chimico del Corpo reale delle miniere, e Bentivegna era studente in medicina: uno studente molto brillante, con una media molto alta. Quanto ai rimpianti…
ROSARIO BENTIVEGNA – Sa, a ripensarci adesso sembra impossibile, eppure in quel periodo non eravamo infelici. Anzi, in una strana maniera ci sentivamo molto sereni, molto liberi, molto ricchi, molto vicini a tutti. Le poche cose piacevoli, non so, una bella giornata, un momento di allegria, le godevamo tutte appassionatamente, fino in fondo, in modo addirittura eccessivo. Forse perchè potevano sempre essere le ultime.
L’EUROPEO – Quindi non eravate angosciati dal timore della morte?
CARLA CAPPONI – No, io pensavo a tutti i possibili incidenti: a volte bastava così poco per far fallire un’azione, un attimo di ritardo, un bambino che ti chiedeva l’ora, una amica incontrata per caso, un compagno di scuola che ti salutava per strada. Oppure ero ossessionata dall’idea del compito che mi aspettava, per esempio continuavo a ripetermi «devo ammazzare un tedesco, devo ammazzare un tedesco, devo ammazzare un tedesco»; e cominciavo a soffrire molto tempo prima dell’azione, perchè la violenza la odio.
ROSARIO BENTIVEGNA – Anch’io avevo paura, è naturale: ma più dopo che prima di un’azione. E non era neppure soltanto paura. Forse si potrebbe dire che era dolore. La prima volta che mi trovai faccia a faccia con uomini che dovevo colpire, e che li ebbi colpiti, ne fu sconvolto. E anche dopo, ogni volta che dovevo sparare per me era una pena, un dolore molto forte: in quello che avevo davanti, anche se era un fascista, anche se era un tedesco, non potevo fare a meno di ritrovare una parte della mia umanità, di riconoscere un uomo. E per me la vita di un uomo vale molto, infatti faccio un mestiere che serve a conservarla, a salvaguardarla, a proteggerla.
Uno dei momenti più brutti per me, ad esempio, è stato quando seppi dell’attentato a Togliatti. Mi sentii come una morsa alla bocca dello stomaco, pensai con disperazione, con infinita stanchezza, con paura, quella volta, sì, era proprio paura: « Oh, Dio, si ricomincia a sparare ». Ricordo, insomma, di aver avuto sempre paura. Ma, soprattuto, temevo che le cose non andassero lisce, che l’azione non riuscisse: era questo che mi permetteva di controllare la mia paura.
L’EUROPEO – E a via Rasella le cose andarono lisce?
CARLA CAPPONI – No. Quel giorno i tedeschi non passavano mai: ritardarono un’ora e tre quarti. Io dovevo aspettare davanti alla sede del Messaggero un avvertimento di Pasquale Balsamo. Ricevutolo, dovevo avviarmi verso via Rasella, aspettare Bentivegna per coprirlo con l’impermeabile, fuggire con lui. Be’, arrivo davanti al Messaggero. Aspetto venti, venticinque minuti. Non succede niente. Sulla porta del giornale erano fermi due poliziotti in borghese, la guardia del corpo del direttore, Spampanato. Cominciano a guardarmi con insistenza, poi mi abbordano, mi chiedono cosa sto aspettando, se ho i documenti, se non so che lì non ci si può stare. Ma con un tono leggero, quasi galante, da pappagalli della strada più che da poliziotti insospettiti. Io i documenti non li avevo, portavo la pistola. Se mi fermavano era finita per me, e tutta l’azione poteva andare per aria. Allora cerco di reggere il gioco, faccio la stupida anch’io, rispondo con civetteria, poi fingo di leggere il giornale esposto nelle vetrine; e intanto mi sentivo morire dall’angoscia. Pasquale Balsamo, che ronzava lì intorno, mi si avvicina e mi dice qualcosa; io non capisco, credo che sia il segnale convenuto e mi avvio verso via Rasella. Tutti gli altri, vedendomi, si mettono sul chi vive, credono che sia il momento: e io non sapevo come avvertirli che m’ero sbagliata, come farli capire. Quando arrivo al mio posto, guardandomi indietro mi accorgo che uno dei poliziotti mi segue a una ventina di metri. Allora vado avanti. Passo accanto a Bentivegna cercando di non guardarlo, sfioro il carrettino con il tritolo, mi fermo al cancello di Palazzo Barberini. Il poliziotto, che nel frattempo era stato raggiunto dal suo collega, mi segue. Ricomincia il dialogo angoscioso: « Signorina, come mai portate sul braccio quell’impermeabile da uomo? ». « E’ per il mio fidanzato ». In quel momento vedo un’amica di mia madre, le corro incontro festosa per liberarmi del poliziotto, ci mettiamo a chiacchierare. Parlava, parlava, e come sta la mamma, e come mai da queste parti, e che fai di bello, non la smetteva più, non sentivo neanche una parola di quello che diceva ma dovevo rispondere, far finta di niente. Non so come riesco a sganciarla. Il poliziotto non mi segue ma mi tiene d’occhio. Intanto arriva la colonna tedesca: e a quel passo cadenzato mi sento scoppiare il cuore.
ROSARIO BENTIVEGNA – Io ero uscito dalla nostra cantina con il carretto del tritolo verso le 13. Portavo la divisa da spazzino, avevo tolto gli occhiali, mi ero messo ai piedi un vecchio paio di scarpe di coppale legate con dello spago rosso per far vedere che ero povero e malridotto. Appena uscito incontro una mia amica: per fortuna non mi riconosce. La strada era lunga e anche faticosa, con tutte le salite e le discese che ci sono a Roma, con quei diciotto chili di esplosivo da trasportare. Camminavo piano, piano. con precauzione, cercando di controllare l’ansia che mi spingeva a correre, a far resto. Era una bella giornata, c’era il sole, faceva molto caldo. Sudavo. Avrei voluto che tutto fosse già finito. Via dell’Impero, la salita di Montecavallo. Passando davanti ai giardini del Quirinale pensai d’improvviso: com’è bella Roma. Era quasi un addio. Via Venti Settembre. Incontro altri due spazzini: « E tu che fai, qui? Questo non è il quartiere tuo ». « Niente, sto portando un carico di cemento ». « Ah, ho capito, fai la borsa nera, vai vai ». Finalmente arrivo in via Rasella, sistemo il carretto. Sapevo di dover aspettare dieci, quindici minuti. Ne passano venti, trenta, quaranta. Vedo Carla venire su per la strada: allora ci siamo, accendo la pipa, ma perchè non mi danno il segnale, perchè non si sente rumore, dov’è finito Calamandrei? Carla continua a camminare, senza nemmeno guardarmi. Mi accorgo che c’è uno che la segue. Non capisco più che cosa sta succedendo, più niente. Il tempo passa lentissimo, un’agonia. Per tre volte mi danno un falso allarme, tre volte accendo la pipa per dar fuoco alla miccia, tre volte la spengo perchè i tedeschi non arrivavano; al momento giusto non avevo più tabacco, ho dovuto racimolare affannosamente nelle tasche cicche e brandelli di carta. Un’ora. Mi si ferma accanto uno spazzino: « Guarda che c’è in giro l’ispettore della Nettezza, che fai? Muoviti, se no ti becchi, una multa ». Mi muovo, comincio a spazzare la strada: non avevo mai preso una scopa in mano in vita mia, non sapevo come fare, avevamo pensato a tutto tranne che a farmi esercitare nella professione di spazzino. Un’ora e mezzo. Ormai è chiaro che l’azione è fallita, i tedeschi hanno cambiato itinerario, meglio rinunciare… Pasquale Balsamo mi passa vicino, sussurra: «Se tra dieci minuti non arrivano, ripiegare». Già, e il tritolo adesso dove lo metto?, toccherà rifare la traversata di Roma, è quasi l’ora del coprifuoco, mi fermeranno… Passano altri cinque minuti. Poi, finalmente arrivano.
CARLA CAPPONI – Vedo Bentivegna venirmi incontro, gli butto sulle spalle l’impermeabile, giriamo insieme l’angolo. La esplosione, eccola. Un autobus che passava sbanda verso i cancelli di Palazzo Barberini, noi riceviamo una spinta fortissima per lo spostamento d’aria. I poliziotti ci corrono addosso attraverso la strada. Io tiro fuori la pistola, e quelli scappano.
ROSARIO BENTIVEGNA – Riuscimmo a buttarci verso via Nazionale appena un attimo prima che il cordone di sbarramento dei tedeschi si chiudesse alle nostre spalle. Le vie intorno erano già bloccate. In via Nazionale un tedesco da una macchina di S.S. gridò: «Sono quelli! ». Ma un tale che gli sedeva accanto disse: « No no, per carità, quello lo conosco benissimo, è un mio parente, un fesso che corre sempre dietro alle ragazze ». Era davvero un mio lontano cugino che lavorava per le S.S. E non credo mica che avesse intenzione di salvarmi. Era proprio convinto di quello che diceva.
CARLA CAPPONI – La tensione nervosa era stata così forte che appena arrivati a casa mia, dove doveva cambiarsi, lui svenne. Era pallidissimo, non riusciva a respirare, il cuore non gli reggeva più. Mia madre gli dette delle gocce, si riprese. Dovevamo liberarci subito della divisa da spazzino. Provammo a farla a pezzi, a strapparla, sembrava indistruttibile. Allora ne facemmo un pacco e lo nascondemmo in un angolo buio, vicino alla salita di San Pietro in Vincoli. Quella notte non potevamo restare a casa mia, e non sapevamo dove andare: al « dopo » non avevamo pensato affatto.
L’EUROPEO – E allora?
ROSARIO BENTIVEGNA – Ci ospitò una signora ebrea amica di famiglia. Lo so, è pazzesco andare a rifugiarsi proprio in casa di un’ebrea, ma è andata così. Passai la notte a giocare a scacchi con suo figlio, un ragazzo di quattordici anni.
L’EUROPEO – Come avete saputo la notizia della rappresaglia delle Ardeatine?
CARLA CAPPONI – La mattina dopo, il 24 marzo, comperammo il giornale: non c’era nessuna notizia, nè dell’azione nè di rappresaglie, niente. In città giravano delle voci, ma non si sapeva nulla di certo, neppure di probabile. Dicevano che i tedeschi erano irritatissimi, che il Comando tedesco era esasperato dal ripetersi degli attacchi partigiani: solo poche settimane prima, per esempio, in un’altra azione, avevamo ucciso quindici tedeschi che uscivano dal cinema Barberini. Quel pomeriggio Giorgio Amendola andò a una riunione del Comitato di liberazione nazionale nel palazzo di Propaganda Fide a piazza di Spagna, a trecento metri da via Rasella, dove stava nascosto De Gasperi. De Gasperi gli chiese se fosse successo qualcosa: aveva sentito un gran rumore, come uno scoppio… e Amendola gli raccontò l’azione cui aveva assistito da lontano. Noi la sera tornammo nella cantina di via Marco Aurelio, e riprendemmo il nostro lavoro. Non eravamo stati individuati, nessuno era caduto, l’azione era riuscita. Arrivò la staffetta con gli ordini, riallacciammo i contatti, partecipammo a una riunione. Tutto era come sempre.
ROSARIO BENTIVEGNA – La mattina del 25 marzo, a mezzogiorno, avevamo un appuntamento davanti alla sede del Messaggero. C’era una copia del giornale esposta nelle vetrine. E lì leggemmo quel comunicato terrificante: « Comunisti badogliani compiono un’azione proditoria contro forze armate germaniche in transito per via Rasella. 32 tedeschi uccisi, numerosi feriti. Il Comando tedesco ha deciso che per ogni tedesco vengano giustiziati dieci italiani. La sentenza è già stata eseguita ».
L’EUROPEO – Che cosa avete provato, sentito?
CARLA CAPPONI – Un’angoscia, una disperazione terribile. Ho pensato subito: avranno ucciso quelli che avevano già in mano. Ed erano tutti nostri amici, compagni di lotta, quelli che ci avevano insegnato a odiare i fascisti, quelli che avevano rischiato con noi, quelli a cui volevamo bene… Agli ebrei, in quel momento, non pensai.
Pensavo a Chiesa, ad Antonello Trombadori, a Luciano Lusana che invece era già morto a via Tasso sotto le torture, a Carla Angelini. Pensavo a un ragazzo di diciotto anni di cui non sapevo neppure il nome… Credevo che fossero stati fucilati. Non potevo immaginare che li avessero presi, caricati sui camion, portati alle Cave Ardeatine, ammucchiati e uccisi con le mitragliatrici, come animali al macello. Che poi avessero nascosto i corpi, e forse qualcuno non era ancora morto, seppellendoli perchè nessuno potesse scoprirli. E invece era questo: un atroce, inimmaginabile massacro.
ROSARIO BENTIVEGN A – L’ira, il dolore, lo sdegno per la vigliaccheria di una rappresaglia simile. L’impulso immediato di fare vendetta, o giustizia, la chiami come vuole, insomma di reagire, di dimostrare che non ci avevano piegato, che non avevano distrutto la Resistenza. E poi un’altra cosa. In quel momento, per la prima volta, ho capito che ci trovavamo davanti a un nemico particolarmente feroce. Oggi è difficile spiegarlo, me ne rendo conto. Oggi sappiamo tutto dei metodi nazisti: abbiamo visto le fotografie, i film, i documenti, abbiamo assistito ai processi, abbiamo letto i libri. Ma allora le notizie non circolavano. Allora noi non sapevamo niente, o quasi.
Non sapevamo che esistessero i campi di annientamento, Bu chenwald e Dachau; non sapevamo del genocidio, delle sevizie, delle atrocità. I nostri compagni non erano certo tornati da via Tasso a raccontare le torture patite, le fustigazioni a morte, le unghie strappate, gli occhi accecati, i marchi impressi nella carne con i ferri roventi.
Leggendo quel comunicato, capii fino a che punto poteva arrivare la bestialità nazista.
L’EUROPEO – Perchè non vi siete costituiti?
CARLA CAPPONI – Perchè nessuno ce lo ha mai chiesto. Nego che vi sia mai stato un annuncio sui giornali, un manifesto sui muri, un comunicato radio con cui il Comando tedesco abbia chiesto la costituzione dei colpevoli promettendo di non fare rappresaglie. Lo nego nella maniera più recisa. Questa alternativa non è mai stata posta. Mai, capisce? Mai, da nessuno. Deve essere chiaro: perchè più tardi questa infamia, questa bugia è stata ripetuta tante volte da diventare per molta gente la verità.
E invece non è la verità. Se non ci crede interroghi i testimoni, ce ne sono ancora tanti, non tutti sono morti. Legga i giornali di quei giorni. Nessuno ha mai chiesto la nostra vita in cambio di quelle delle vittime delle Ardeatine, mai.
L’EUROPEO – E se ve la avessero chiesta, vi sareste costituiti?
CARL£ CAPPONI – Sì. Io sento molto i problemi di coscienza. Non presentarmi avrebbe significato morire ogni giorno per tutto il resto della vita. Mi sarei costituita anche sapendo benissimo che i tedeschi non si sarebbero comportati da gentiluomini, non si sarebbero certo accontentati di una sola vittima. Avrebbero semplicemente ammazzato me insieme agli altri.
ROSARIO BENTIVEGNA – Non lo so. Conoscendo il mio temperamento e il mio modo di essere, come la pensavo allora e come la penso oggi, credo che avrei reagito non presentandomi inerme al Comando tedesco, cioè non accettando il ricatto: ma buttandomi allo sbaraglio in un’azione anche disperata per impedire la rappresaglia, pronto a morirci. Non so, avrei cercato di organizzare un attacco ai camion che trasportavano le vittime, un assalto al carcere di Regina Coeli o a via Tasso. Sono convinto che i tedeschi evitarono di lanciare un appello agli attentatori e dettero notizia della rappresaglia solo quando « la sentenza era già stata eseguita » e non c’era più niente da fare proprio perchè temevano una azione del genere. Comunque, credo che non avrei rotto la disciplina militare che mi legava al mio Comando, e avrei obbedito agli ordini. Credo, ho detto. E’ troppo facile e anche irrazionale rispondere, adesso. In realtà, l’unica risposta possibile è: non lo so.
L’EUROPEO – Vi siete sentiti colpevoli, responsabili dell’eccidio?
CARLA CAPPONI – No, non mi sono mai sentita colpevole. Vedevo le due cose distinte: noi avevamo compiuto un’azione partigiana, legale nell’ambito della guerriglia; quella rappresaglia atroce era un atto illegale e illegittimo la cui responsabilità ricadeva interamente sui tedeschi. Se avessero ammazzato noi, dal loro punto di vista sarebbe stato giusto. Ma gli altri, perchè?
ROSARIO BENTIVEGNA – No, in maniera assoluta. Nego che tra l’azione di via Rasella e l’eccidio delle Fosse Ardeatine vi sia un rapporto da causa ad effetto.
L’EUROPEO – Però se l’azione non fosse stata compiuta la rappresaglia non avrebbe avuto luogo: quindi direi che un rapporto da causa ad effetto esiste, no?
ROSARIO BENTIVEGNA – No. Guardi, facciamo un esempio. Se io ti do un colpo, e tu per vendicarti ammazzi mia moglie, la responsabilità non è certo mia. E’ una questione che non riguarda me, ma te. Sei tu che hai ammazzato mia moglie, non io.
L’EUROPEO – Per voi quella di via Rasella aveva un’importanza particolare, o era un’azione come tante altre?
ROSARIO BENTIVEGNA – Era più importante perchè colpiva un maggior numero di tedeschi, perchè impegnava da parte nostra un maggior numero di combattenti, perchè era legata ad una data precisa. Ma non era più rischiosa di molte altre.
L’EUROPEO – Che cosa ha significato in seguito, nella vostra vita, essere stati protagonisti di quell’azione?
CARLA CAPPONI – Io ho ricevuto dallo Stato italiano, per quella e per altre azioni, una medaglia d’oro al valor militare, che mi è stata consegnata dal ministro della Difesa davanti alle truppe schierate. Più tardi, forse anche per questo, sono stata eletta al Parlamento.
ROSARIO BENTIVEGNA – Io ho ottenuto una medaglia d’argento al valor militare, nella motivazione della quale è citata la data del 23 marzo e l’azione di via Rasella, e la cui proposta è stata firmata dal presidente del Consiglio Alcide de Gasperi.
L’EUROPEO – Queste sono le conseguenze positive. Ve ne sono state anche negative?
CARLA CAPPONI – Centinaia di giornali, di manifesti, di oratori nei comizi ci hanno insultato. Ci hanno fatto oggetto di una campagna di calunnie, di diffamazione, di menzogne. Ancora oggi ricevo lettere anonime di fascisti con insulti, con volgarità atroci, con grottesche ma violente minacce di morte. Ricevo anche delle telefonate. Si sente nel microfono una voce da oltretomba, cavernosa, ridicola, che dice: « Pronto! Qui parlano i martiri delle Ardeatine. C’è l’assassino Bentivegna e la sua degna compagna? ». Oppure si sente una voce che parla in tedesco, e io non ci capisco niente, solo a un certo punto distinguo una parola, « Rasellen-Strasse ». Mi sono arrivate alcune mie fotografìe ritagliate dai giornali e sfregiate: con gli occhi bucati, le orecchie tagliate, il naso strappato, la bocca sanguinosa, e con la promessa: « ti ridurremo così ». Alla Camera, durante le battaglie parlamentari, i deputati di destra mi gridavano donnaccia, mi facevano le corna con le dita. Mia figlia Elena va a scuola; e durante una lezione di religione ha sentito il professore dire che suo padre ed io eravamo degli assassini, i responsabili di un massacro. Elena non ha replicato, ha solo chiesto di uscire. Il giorno dopo io sono andata a parlare con il professore di religione. Dopo un’ora di discussione mi ha chiesto scusa. Dicendo questo non voglio mica fare la vittima, sa. Sono episodi diluiti in diciannove anni, e in fondo non sono nemmeno importanti; o lo sono soltanto perchè dimostrano la malafede, la vigliaccheria, la volgarità di certa gente. E’ molto più importante aver avuto il rispetto, la stima e l’affetto degli altri, anche non comunisti.
ROSARIO BENTIVEGNA – M’è capitato di trovare gente che si rifiutava di stringermi la mano, gente che si rifiutava di sedere a tavola con me o gente che mi aggrediva addirittura: ma erano fascisti, e perciò non ha importanza. Anzi, io sono orgoglioso di essere il più odiato degli antifascisti romani: evidentemente vuol dire che la mia lotta è stata così utile da lasciare il segno ancora oggi. Questo, è naturale, ha avuto delle conseguenze nella mia vita privata. In campo professionale, per esempio, mi sono trovato di fronte a prevenzioni e difficoltà gravi. Quando, alla fine della guerra, tornai all’università dove avevo già fatto tre anni di medicina, parecchi professori mi dimostrarono una clamorosa ostilità. Uno si rifiutò persino di esaminarmi. Anche dopo la laurea alcuni ambienti mi hanno reso estremamente difficile lavorare. In compenso molti colleghi o maestri come i professori Caronia, Missiroli e Pariavecchio mi hanno dato tutta la loro solidarietà, e tutti i miei clienti, tra cui gli operai delle Officine del gas di Roma, che curo come medico della mutua da sedici anni, hanno avuto manifestazioni di stima e di amicizia per me molto commoventi.
Qualche volta ho intuito delle perplessità, delle riserve di giudizio, dei dubbi anche all’interno del Partito comunista, tra alcuni compagni meno preparati e meno informati. Vede, alle sue domande noi in questi vent’anni abbiamo risposto migliaia di volte. Mai sui giornali, ma parlando con amici, conoscenti, giovani, gente qualunque, compagni comunisti. Perchè della storia di via Rasella si sapeva poco, e quel poco era stato alterato, falsificato, distorto.
L’EUROPEO – Avete mai incontrato, in questi anni, i familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine?
ROSARIO BENTIVEGNA – Di molti io sono stato e sono il medico curante.
CARLA CAPPONI – Sì, abbiamo avuto con molti di loro anche rapporti di amicizia. Solo tre ci hanno citato per danni civili. Volevano soldi da noi. Ci hanno fatto causa, e non l’hanno vinta. La sentenza diceva: l’azione di via Rasella è un atto di guerra, per i danni da essa derivati bisogna rivolgersi allo Stato.
L’EUROPEO – Oggi, sapendo quanto è costata agli altri e a voi quell’azione, la rifareste?
CARLA CAPPONI – Sì, senz’altro.
ROSARIO BENTIVEGNA – Io vorrei capovolgere la domanda. Oggi, sapendo quel che significa e ha significato la Resistenza per il nostro paese, rifarei non solo l’azione di via Rasella, ma tutte le altre azioni partigiane cui ho partecipato prima e dopo. Il « prezzo » della Resistenza è stato largamente compensato dalla dignità che ci ha restituito nel consesso dei popoli civili. Quanto al « prezzo » personale, è largamente compensato dall’orgoglio che ho di essere stato uno dei protagonisti della Resistenza stessa.
L’EUROPEO – Ma il prezzo di via Rasella? Trecentotrentacinque morti sono un prezzo molto duro per un’azione, non le pare?
ROSARIO BENTIVEGNA – Certo, sono un prezzo duro. Terribile, atroce, doloroso. Però bisogna precisare che il « prezzo » della azione di via Rasella va considerato dal punto di vista politico e militare. Con la rappresaglia delle Ardeatine i tedeschi non volevano colpire soltanto i partigiani, ma tutti i romani che li hanno sempre aiutati, alloggiati, nutriti, nascosti. A Roma, in quei nove mesi, per i tedeschi non ha lavorato nessuno tranne pochi collaborazionisti. Nelle case di Roma c’erano migliaia di persone nascoste, ebrei, partigiani, ufficiali, prigionieri alleati, carabinieri, A Roma si sono svolte centinaia di azioni partigiane dalle più semplici alle più complesse. Roma non era certo per i tedeschi una comoda e piacevole sede di retrovia dove far riposare e divertire le loro truppe. I soldati dovevano girare sempre armati, con il dito sul grilletto; il Comando era costretto ad occupare la città con forze militari che avrebbe potuto dislocare sul fronte. Solo dopo l’azione di via Rasella i tedeschi dichiararono con un Comunicato che da quel momento avrebbero rispettato il carattere di città aperta di Roma. In realtà lo rispettarono, e i bombardamenti furono sospesi. Mi pare quindi che l’azione di via Rasella, insieme a tutto il resto, abbia avuto non solo un significato politico, ma anche quel concreto risultato militare che decine di bombardamenti alleati non erano riusciti ad ottenere.
L’EUROPEO – Non tutti sono del suo parere. C’è chi anche recentemente ha detto che quella di via Rasella fu un’azione militarmente inutile. Anzi dannosa, perchè in
conseguenza di essa molti, troppi combattenti per la libertà, antifascisti e partigiani, persero la vita.
ROSARIO BENTIVEGNA – Non è stata inutile: le ho già spiegato perchè. Certo per chi, ignorando o fingendo di ignorare come sono andati i fatti, isola l’azione di via Rasella dal contesto della Resistenza, è facile dimostrare questa « inutilità ». Ma con questo criterio qualsiasi azione di guerra, qualsiasi battaglia diventa inutile: anche l’affondamento della Viribus Unitis nel 1917 o la battaglia di Stalingrado nel 1942. E poi non si conduce una guerra di liberazione aspettando che arrivino i liberatori, nascosti più o meno comodamente in un convento o in una cantina. Certo ogni guerra, anche una guerra di liberazione, comporta sacrificio e perdite umane; e le medaglie al valore, quando sono meritate, in genere grondano sangue. E’ per questo, vede, che a me la guerra ripugna, che la odio.

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