L’eccidio di Pozzo di Becca

funerali

La strage di Pozzo di Becca avvenne nella notte tra il 12 e il 13 aprile del 1945 ad opera della brigata nera di Imola. Questa banda di delinquenti fascisti (questo un riassunto delle loro violenze) comandati dai brigatisti neri Ravaioli e Gentilini, prima di scappare per rifugiarsi al nord, volle eliminare 16 prigionieri politici rinchiusi nel carcere della Rocca di Imola. Questi i loro nomi: Bernardo Baldazzi, Gaetano Bersani, Guido Facchini, Paolo Filippini, Cesare Gabusi, Ciliante Martelli, Giovanni Roncarati, Augusto Ronzani, di Medicina; Antonio Cassani di Castelguelfo, Dante Bernardi, Duilio Broccoli, Mario Felicori, Secondo Grassi, Mario Martelli, Corrado Masina, di Castel S. Pietro, unitamente a Domenico Rivalta. Era questi l’unico imolese, quindi non incorreva per tutti gli altri nemmeno il motivo dell’odio personale e della vendetta, essendo sconosciuti alla brigata nera. Ma ciò che restava della banda di Gentilini e Ravaioli (una parte col suo capo era partita su automezzo il 15 aprile) li aveva già sottoposti a sevizie e a torture, riducendoli a uno stato compassionevole. Apprestandosi ora a fuggire dalla città, volle lasciare l’ultima traccia di sé.
Caricati su due autocarri e, fra urli e minacce, condotti nei pressi del pozzo dello stabilimento ortofrutticolo della ditta Becca in via Veneto, i disgraziati subirono altre e più terribili torture per essere poi finiti a colpi di mitra e di bombe a mano. Gettati i loro corpi nel pozzo, i fascisti, a compimento dell’opera, fecero crollare sul fondo il muretto e la garitta di mattoni, prima di darsi alla fuga verso l’Alta Italia.
Le spoglie orrendamente deformate, con i segni ben visibili delle sevizie, furono esumate il recupero15 aprile fra l’orrore degli addetti, di gente accorsa e dei rappresentanti del governo alleato. La radio alleata così comunicò la notizia: ”[…] Due soltanto degli assassinati sono stati identificati, mentre i cadaveri degli altri si presentavano talmente straziati da rendere impossibile qualunque identificazione; i corpi sono infatti completamente mutilati e ustionati, le membra spezzate, le gole tagliate, gli occhi cavati. In ognuno dei corpi tutte le unghie delle mani e dei piedi sono state strappate. […] I torturatori li avevano evirati usando del petrolio, che poi avevano acceso, sui testicoli. La sezione di PS dell’AMG dell’VIII armata in Imola, che sta compiendo un’indagine preliminare ha appreso che durante la notte del massacro si udivano le grida delle vittime nei dintorni del luogo, ma i tedeschi rafforzarono il coprifuoco e le loro pattuglie impedirono ad alcuno di avvicinarsi […]. II maggiore I. C. Ried da Aberdeen, ufficiale della PS dell’AMG, dopo aver esaminato i cadaveri, si è cosi espresso: “Non ho mai visto in vita mia uno spettacolo cosi orrendo; e incredibile che tanta crudeltà possa esistere in esseri umani”.

I corpi dei 16 partigiani uccisi in attesa del riconoscimento

I corpi dei 16 partigiani uccisi in attesa del riconoscimento

Queste le foto dei cadaveri appena recuperati

Il governatore polacco, che comandava la piazza di Imola, svenne alla vista dei corpi riesumati e subito dopo firmò un ordine di cattura per prelevare i componenti della brigata nera che era rinchiusa nel campo di concentramento di Coltano, vicino a Verona. La polizia partigiana organizzò il trasferimento dei brigatisti neri, prelevandoli e trasportandoli con un camion a Imola. Il camion arrivò in città di mattina e la destinazione era la caserma dei carabinieri, la stessa sede che era stata assaltata mesi prima dagli stessi fascisti (tre carabinieri deportati in Germania). La gente del posto era stata avvertita dell’arrivo del camion e, a parte la scorta della polizia partigiana, ad attendere i fascisti non c’erano nè i carabinieri e neanche la polizia del contingente polacco. La popolazione era inferocita e la scorta partigiana non potè far nulla contro il desiderio di giustizia e dopo mesi di torture, violenze, stupri e aggressioni subite le brigate nere vennero  fatte a pezzi. Se ne salvarono solo quattro su sedici. Sedici come i partigiani pestati, torturati, evirati, bruciati di Pozzo della Becca. funerali1

Probabilmente questo è uno di quei fatti in cui gli alleati concordarono con i partigiani il comportamento da tenere con chi non aveva dimostrato nessuna umanità e questo si può capire meglio dai resoconti di chi quei giorni li ha vissuti in prima persona. Queste sono le testimonianze di tre partigiani, tratte da “Asce di guerra” di Wu Ming e Vitaliano Ravagli.

Vincenzo Martelli “Cito”: «Siamo all’ultimo mese di guerra. Dopo la battaglia di Ca’ di Guzzo i partigiani che si sono salvati restano dispersi e cercano di guadagnare la libertà, chi fugge da una parte chi dall’altra. Alcuni vengono presi, e tra questi il sottoscritto, che vengo catturato e messo nella rocca di Imola dove il capo della Brigata Nera, uno di Faenza, un lottatore grande e grosso, Ravaioli, comincia a torturarci. Quando sai che ti tortureranno non puoi sapere se resisterai, quanto resisterai. E non è che hai tanto tempo per pensare. Allora io decisi di fingere e faccio i nomi di quelli che sapevo erano morti o avevano già passato le linee alleate. Riesco a evitare la tortura, mi picchiano un po’, poi abbiamo una botta di culo. Da Budrio, siccome c’era stato un bombardamento, chiedono a Imola se hanno dei prigionieri da mandare a scavare le macerie. Quindi ci consegnano ai tedeschi e ai pompieri. Così ci siamo salvati. E non siamo finiti nel Pozzo di Becca. E t’capì? Poi passano venti giorni. Cinque o sei giorni prima della fine della guerra, la Brigata Nera di Imola tortura 16 partigiani catturati, tra cui il mio amico Minghiné, li evirano, bruciano i testicoli, strappano le unghie e li tagliano a pezzettini. E poi ritirandosi verso il Po, li buttano dentro al pozzo dello stabilimento Becca. Era un luogo dove si lavorava la frutta, ormai distrutto dai bombardamenti. Poi con le bombe fanno saltare tutto.
Quando Imola viene liberata, due giorni dopo, per il fetore e per le urla che si erano sentite, tutti immaginano che lì dentro ci siano dei corpi. Gli Alleati scavano e tirano su questi poveri resti. Il governatore polacco, che comandava la piazza di Imola, sviene e poi firma un documento per prelevare la Brigata Nera di Imola dal campo di concentramento di Coltano, vicino Verona. I partigiani vanno là, prelevano i fascisti, e fanno in modo di arrivare a Imola di mattina. Tutta la cittadinanza è avvertita. Si fermano vicino alla caserma dei carabinieri, ma la gente è troppo inferocita. I carabinieri non hanno il coraggio di uscire per prendere in consegna i prigionieri, restano chiusi dentro. Il camion viene preso d’assalto, Bob e i suoi cercano invano di tenere lontana la folla. Le brigate nere vengono fatte a pezzi. Senza il Pozzo di Becca si sarebbero salvati la vita.
Gli Alleati poi ci hanno lasciato otto giorni di tempo per regolare i nostri conti, dopodiché l’ordine doveva essere ristabilito. E un po’ di conti sono stati regolati, altroché.»

Graziano Zappi “Mirco”: «Dopo che avevamo marciato tutta la notte su per le mulattiere del monte Falterona e arrivavamo ai rifugi stremati di fatica, ci ripetevamo sempre la stessa promessa: quando la guerra sarà finita, prendiamo tutti i fascisti, tutti i capitalisti, li portiamo quassù e gli facciamo spianare le montagne.» si rivolge agli accademici in cattedra e con un sorrisetto malizioso aggiunge «Sbagliavamo? Non lo so. Ma è quello che pensavamo allora.»
Poi prosegue con un episodio folgorante, il linciaggio della Brigata Nera di Imola, poco dopo la liberazione. Racconta che prima di scappare incalzati dall’avanzata alleata, i fascisti avevano torturato a morte i detenuti nella Rocca di Imola e avevano gettato i corpi nel Pozzo di Becca, alcuni ancora vivi, facendolo saltare con le bombe a mano. Quando quei cadaveri vennero riesumati, le fotografie delle salme straziate furono affisse in piazza. Il comandante alleato firmò un ordine di prelevamento per la Brigata Nera di Imola, che nel frattempo si era arresa a Verona. Una scorta di partigiani e poliziotti si recò a Verona per prelevarli.
Il racconto è travolgente, nell’aula non vola una mosca: «La popolazione si era radunata in piazza fin dalla mattina presto. Non appena il camion è arrivato, è stato subito preso d’assalto dalla folla inferocita. La scorta ha cercato di tenere a bada la gente come poteva, ma erano troppo pochi. I brigatisti furono massacrati. Io c’ero, l’ho visto coi miei occhi. Ricordo i familiari di due donne uccise dai fascisti durante una manifestazione per il pane. Li ho visti uccidere gli assassini delle sorelle a calci, pestando loro la testa con il tacco delle scarpe.» una pausa «Avete capito qual era il clima a quel tempo?!»
(…) «E’ stato uno sfogo di rabbia popolare. Sai, i sedici partigiani del Pozzo di Becca erano conosciuti in città. Uno era Minghiné, un promotore della Resistenza di Imola. Li avevano torturati e la gente aveva visto le fotografie. Sugli aguzzini si sfogò tutta l’esasperazione e l’odio per anni di stenti, fame e paura. E poi, come hanno detto anche quei professori, non c’erano solo i conti recenti da regolare. Il fascismo non era mica cominciato nel ’43! Era cominciato negli anni Venti, col terrore nero nelle campagne, con le squadracce che picchiavano e uccidevano gli scioperanti. C’erano vent’anni di conti in sospeso.

Elio Gollini “Sole”: «Io credo che il trasferimento a Imola della Brigata Nera fu un’azione concordata coi “liberatori”, tramite il commissario di Pubblica Sicurezza. Qualcosa che gli Alleati concessero al CLN e ai partigiani, dopo che li avevano fatti tanto patire.
La Guerra Fredda è cominciata ben prima della fine del conflitto mondiale. Per gli americani il fronte italiano avrebbe dovuto essere solo un diversivo, per tenere impegnate quante più truppe tedesche era possibile. Lo sbarco sul continente era già previsto in Francia. Churchill invece aveva paura che i comunisti si accaparrassero tutta l’Europa orientale e balcanica e premeva per l’avanzata sul fronte meridionale, perché voleva arrivare a Trieste e a Vienna prima degli jugoslavi e dell’Armata Rossa. Questa differenza di vedute creò molti fraintendimenti, che si giocarono tutti sulla pelle dei partigiani e della popolazione. Nell’autunno del ’44 gli Alleati fermano il fronte sull’Appennino e decidono di svernare lì e riprendere l’avanzata in primavera. E questo dopo che le organizzazioni partigiane in montagna e in pianura avevano speso energie, rischiato moltissimo, ed erano pronte a entrare in azione per liberare la regione. Si ritrovarono senza l’appoggio degli Alleati, ormai fermi, a dover superare un inverno di rappresaglie, delazioni, sequestri. [Conta sulle dita] Poi c’era il fatto che alle Brigate Garibaldi non vennero fatti lanci di armi e munizioni, perché erano brigate comuniste. La Trentaseiesima in particolare non era vista di buon occhio dagli anglo-americani e le armi che riuscì a recuperare dai lanci erano destinate ad altre brigate. Non a caso, nell’aprile del ’45, il Comando alleato impedì a un reparto della Trentaseiesima di scendere a liberare Imola. Nei loro piani Imola doveva essere liberata dai polacchi, che avendo avuto il loro paese invaso per metà da Stalin, odiavano i comunisti. Erano scelte politiche che prefiguravano la Guerra Fredda. [sospira e indica le foto] Ma quando tirarono fuori i corpi di quei sedici antifascisti e videro in che condizioni erano ridotti, capirono che bisognava concedere qualcosa. La gente si vendicò di quello che aveva dovuto subire sotto i fascisti. Di sedici brigatisti neri se ne salvarono quattro, per l’intervento della scorta.»
«E quali sarebbero i punti oscuri?»
«[alza le spalle] Ci arrivi anche da solo se ci pensi. Perché le fotografie del pozzo di Becca furono appese sulla pubblica piazza? Perché quando il camion che trasportava la Brigata Nera arrivò in città non c’era polizia militare in giro? Dov’erano i polacchi? Dov’erano i carabinieri? E la polizia? E poi: era una pura coincidenza che su quel camion ci fossero proprio sedici brigatisti neri, tanti quanti gli antifascisti trucidati nel Pozzo di Becca? E il guasto al motore, che impedì al camion di arrivare a Imola di notte, come era previsto, per non creare scompiglio? [scuote la testa] Credo si fece in modo di farlo arrivare in città la mattina, e gli Alleati, che pure controllavano tutto, fecero finta di non sapere.»
«Mirco mi ha detto che i partigiani di scorta cercarono di tenere a bada la folla.»
«Certo. Non è mica detto che pensassero di scatenare un linciaggio. Forse volevano solo far sfilare gli assassini davanti alla popolazione che avevano vessato per anni. Ma la situazione gli è sfuggita di mano. Della scorta sembra facesse parte anche Bob e nemmeno la sua autorità bastò ad arginare la furia della gente che aveva avuto vittime. In quegli stessi giorni, si è poi saputo, alcuni familiari di quei brigatisti furono prelevati nel paese in cui s’erano rifugiati, in Veneto, e ritrovati morti in un campo. Insomma era un clima esasperato, di vendetta. Ravaioli e la sua squadra di sadici ne avevano fatte di brutte: torture, stupri, omicidi. Agli antifascisti, prima di gettarli nel Pozzo di Becca, avevano bruciato i testicoli, strappato le unghie…»

http://memoriadibologna.comune.bologna.it/eccidio-del-pozzo-becca-26-evento

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