17 maggio 1944: nascita della Brigata Garibaldina “Ateo Garemi”

Partigiani della Brigata “La Pasubiana” assieme al comandante di distaccamento Franco Dal Medico “Tom”

Partigiani della Brigata “La Pasubiana” assieme al comandante di distaccamento Franco Dal Medico “Tom”

Il 17 maggio del 1944 si costituisce a Malga Campetto la XXX Brigata Garibaldina “Ateo Garemi”. Ateo Garemi era un operaio emigrato in Francia che, non ancora diciassettenne, accorse in Spagna come volontario nelle Brigate Internazionali. Nel 1940 aderì al Partito comunista francese e, dopo l’occupazione tedesca, entrò nelle file del “maquis”, poi, dopo l’8 settembre 1943, fu il primo comandante del Gap di Torino (suo successore fu Giovanni Pesce “Visone”). Il 24 ottobre 1943 con l’anarchico Dario Cagno abbattè a colpi di pistola il seniore della Milizia Domenico Giardina. Arrestato per una delazione, fu fucilato nel cortile della Caserma “Monte Grappa” di Torino. La Brigata dopo l’8 maggio diventa Gruppo Brigate Garemi, operanti in una vasta area tra i Lessini ed il Trentino: ne facevano parte la “Stella” e “La Pasubiana” (che poi diviene “Martiri Val Leogra” e “Zona Trentina-Pasubiana”), e più tardi l’“Avesani”, la “Pino”, la “Mameli”. Comandante della Brigata (diventata poi divisione) fu nominato Nello Boscagli “Alberto”: nato nel 1905, è stato uno dei maggiori protagonisti della Resistenza vicentina. Comunista, emigrato nel ’24 in Francia, chiamato nei primi anni Trenta a far parte dell’apparato del PCI in Francia, combattente della guerra di Spagna, resistente in Francia nelle file dei “franc tireurs”, dopo l’8 settembre rientrò in Italia e fu inviato nel Veneto come istruttore dei GAP, per poi essere destinato dai comandi Garibaldini al comando della Garemi. In questo scritto “Alberto” rievoca alcuni episodi della sua formazione:

Subito all’indomani del 25 luglio 1943 in tutta la zona del Vicentino ed in quelle circonvicine come Verona, si era creata una situazione di attesa: la caduta del regime fascista aveva acceso mille e mille speranze, ma la mancanza di un’organizzazione adeguata frustrava ogni energia in una passiva considerazione degli avvenimenti. Dopo l’otto settembre fu chiaro però che ogni ritardo avrebbe significato un asprissimo regime di occupazione nazista senza possibilità di riscatto. Stimolati da questa necessità decidemmo di entrare in azione, sebbene ancora poco numerosi. Un primo gruppo fu inizialmente da noi costituito sulle pendici dell’altipiano di Asiago, ma ben presto vi entrò la provocazione e i quadri comunisti, che vi partecipavano, furono assassinati (riferimento all’episodio di Malga Silvagno). Questo primo scacco ci rese più guardinghi e ci persuase della necessità di dare una solida organizzazione al movimento partigiano. Il quale prese anche slancio dal fatto che fu nostra cura creare subito dei solidi legami con la popolazione: quei montanari che, nella loro maggioranza, erano costretti a cercare nell’emigrazione il necessario sostentamento per loro e per le loro famiglie, compresero molto bene come un nuovo indirizzo politico e sociale avrebbe potuto cambiare anche il corso della loro vita e nel movimento partigiano videro il mezzo per realizzare le loro speranze. Per questo ci furono sempre larghi di aiuto e fu proprio per la loro collaborazione che noi riuscimmo a trovare il vettovagliamento anche per numerose formazioni partigiane. Infatti il famoso decreto di Salò di mobilitazione del maggio-giugno 1944 aveva visto la diserzione in massa dei richiamati che accorsero sui monti a ingrossare le formazioni partigiane. Naturalmente questo cospicuo aumento di forze ci pose con maggior urgenza il problema del vettovagliamento e delle armi. Queste furono procurate in parte con il disarmo delle caserme dei carabinieri, assai numerose nella zona, e con i colpi di mano contro i tedeschi e le brigate nere; per il vettovagliamento ci venne incontro ancora una volta la popolazione, specialmente le donne, che spinsero il loro interesse non solo al rifornimento di viveri, ma a tempo debito, facevano trovare ai partigiani i loro indumenti puliti e rammendati. Parecchie di esse parteciparono direttamente alle nostre formazioni, impugnando il fucile e compiendo un prezioso servizio come staffette. Frattanto la zona della nostra attività partigiana si era allargata e andava dalla città di Vicenza fino al Brennero: la sua importanza appare subito chiara dalle strade, da cui è percorsa: quella della Valsugana; la Gardesana, e la Val d’Adige, la Val d’Astico e la Vallarsa che tutte portano al Brennero; da queste cinque strade il nemico faceva passare i rinforzi, di cui aveva bisogno e pensava di poter mandare in Germania il frutto delle sue sistematiche razzie. Compito delle nostre pattuglie, dislocate in queste posizioni-chiave era appunto d’impedire questi passaggi attaccando il nemico nei suoi mezzi e nei suoi uomini: che l’intento sia stato raggiunto ne fanno fede gl’innumerevoli cartelli disseminati da tutte le parti per mettere in guardia i soldati tedeschi della presenza di partigiani e le misure severissime adottate dalle colonne di passaggio.

La Brigata Stella: al centro della foto, con il berretto, il comandante Bertò Francesco “Marte”

La Brigata Stella: al centro della foto, con il berretto, il comandante Bertò Francesco “Marte”

Più ancora ne fanno fede i feroci rastrellamenti sferrati in continuità, dai tedeschi e dai fascisti, contro le nostre postazioni nel tentativo di rendere meno pericolosi i loro movimenti e nell’illusorìa speranza di spazzare via il movimento partigiano. Sarebbe impossibile ricordare tutti i colpi di mano e le azioni di guerra effettuate dai partigiani della “Garemi” per il periodo della loro permanenza in montagna; alcune però sono degne di menzione, perchè s’inseriscono direttamente in vasti movimenti coordinati di truppe partigiane o perchè mettono in luce il coraggio e l’abilità del partigiano, che quasi sempre doveva agire con estrema scarsezza di mezzi e doveva affidare l’esito dell’azione alla ingegnosità della sua mente e all’ardire del suo animo. Ai primi di maggio del 1944 la divisione aveva partecipato ad azioni nelle zone di Schio, Thiene, Rovereto, Lavarone e Arsiere e suo compito precipuo era stato il blocco della strada del Brennero. Fra queste va ricordata quella avvenuta nel giugno 1944, nei pressi di Ala, contro un treno che trasportava truppe verso il fronte. Venne provocato il deragliamento del treno e, secondo confessione del nemico, vi furono oltre 400 tedeschi morti. Sempre nel giugno 1944, dopo la presa di Roma da parte degli Alleati, le varie Ambasciate dei Paesi fascisti cercavano in Germania un posto più sicuro; proprio alcuni alti ufficiali dell’Ambasciata giapponese (l’addetto dell’Aria e quella della Marina) vennero catturati dalle nostre formazioni presso il Dente del Pasubio. Dalla voluminosa cartella, che portavano con sè, uscirono numerosi documenti, che noi ci affrettammo a inviare ai nostri servizi in Svizzera. I tedeschi, venuti a conoscenza del fatto, ci fecero chiedere a quali condizioni avremmo liberato i due alti ufficiali. Ma quella fu solo una manovra per guadagnare tempo perchè, prima ancora che noi facessimo conoscere il prezzo del riscatto, scagliarono una forte azione nella zona, abbandonandosi a rappresaglie contro la popolazione civile. I due generali giapponesi furono così passati per le armi. Nello stesso tempo riuscimmo a catturare l’ingegnere capo delle fortificazioni della zona pedemontana e un ingegnere delle costruzioni navali a Monfalcone. In questo modo caddero nelle nostre mani i disegni per un nuovo siluro e i piani delle fortificazioni: queste non furono più effettuate, permettendo in tal modo una più rapida eliminazione della resistenza tedesca sui valichi alpini.
Alla divisione “Garemi” è pure dovuto il disarmo del Ministero della Marina a Montecchio Maggiore: il governo di Salò stava allora riorganizzando quel settore e fu sorpreso proprio in quel delicato momento; diverse centinaia di uomini furono disarmati e l’azione ci fruttò centinaia di armi e di divise, preziose per sorprendere più facilmente il nemico fin dentro le sue sedi. Inoltre parecchi marinai di leva passarono nelle nostre file e si dimostrarono fedeli e coraggiosi, sapendo anche morire vicino ai nostri partigiani. Nello stesso tempo si ebbe la distruzione della Scuola allievi ufficiali di Tonezza: molto ingenti furono le perdite del nemico e la caserma rimase distrutta, nè fu ricostruita, per cui la zona potè essere occupata dai nostri partigiani. Fra le azioni che meglio servono a mettere in luce l’intrepido ardire dei nostri uomini, va annoverata quella del disarmo della caserma della Guardia Repubblichina di Valle del Pasubio: i nostri erano solo in quattro, ma riuscirono a farsi credere numerosi con abili e continui spostamenti da una, parte all’altra del paese, sparando numerose raffiche dai posti più impensati; in tal modo indussero i pavidi repubblichini ad arrendersi e i numerosi paesani accorsi aiutarono i quattro partigiani a trasportare verso la montagna l’ingente bottino d’armi e di divise. Mentre l’azione era in svolgimento si avvicinavano al paese due camions di truppe tedesche, ma al frastuono di quella sparatoria infernale credettero di trovarsi di fronte a una grossa formazione partigiana e fecero… marcia indietro. In questa stessa località accadde un altro fatto, che non si deve dimenticare: il partigiano Bruno Brandellero si trovava in una contrada con altri compagni. All’improvviso, a notte inoltrata, un gruppo di tedeschi fa unapuntata nella zona e si accorge della presenza di questi uomini. Allora incomincia la caccia al partigiano. Brandellero, assieme ai suoi compagni, riesce a sfuggire alla caccia, ma i tedeschi, secondo il loro costume, prendono tutta la gente del paese, la mettono al muro e minacciano di fucilare tutti quanti se non sono presi i responsabili. E’ allora che si mostra tutta la nobiltà d’animo del partigiano Brandellero: sebbene già al sicuro, egli ritorna sui suoi passi, si presenta al comando tedesco e rivendica per sè e solo per sè la responsabilità dell’azione. Coperto d’insulti, calpestato e finalmente messo al muro, l’eroico partigiano muore davanti agli occhi di tutta la popolazione commossa, che rimarrà poi sempre fervente sostenitrice dei partigiani e che proprio in questi giorni sta innalzando al suo eroico salvatore un monumento, che ne perenni la memoria (Bruno Brandellero “Ciccio” fu invece ucciso, quasi morente, dopo nove giorni di tortura a Marano Vicentino: qui è ricostruito l’episodio di Vallortigara) . Ma questo non fu un atto singolo: ogni volta che i tedeschi si accanivano sulla popolazione e l’assunzione della responsabilità di un’azione riusciva a evitare una strage, si trovava sempre un partigiano, che sapeva far dono della propria vita per salvare la popolazione. Ed è principalmente in questo fatto la spiegazione della simpatia e dell’aiuto che ci venne sempre dalla popolazione della zona. Naturalmente non tutte le azioni avevano un successo pieno per noi; talora il nemico riusciva ad accorrere in tempo con nuove forze fresche e a infliggerci perdite anche severe. A Valdagno, dove si trovava una sezione del Ministero degli Interni di Salò, i nostri partigiani, che in un’azione di guerra si erano spinti fino alla piana in prossimità della cittadina, all’improvviso si trovarono accerchiati da preponderanti forze tedesche: molti furono i morti da parte del nemico, ma anche i nostri subirono gravi perdite. Anche nel rastrellamento di Bosina un distaccamento di nostri partigiani, appostati in attesa di un lancio, furono sorpresi dai tedeschi; per salvare il grosso della formazione, attirando il fuoco su di sè, un gruppo di essi, al comando della Medaglia d’oro alla memoria, Bruno Viola, si asserragliò in una baita a Malga Zonta e combattè fino all’ultima cartuccia. Quando i partigiani furono sopraffatti, i tedeschi volevano sapere ad ogni costo dove si trovava il resto della formazione, ma quei biavi ragazzi risposero sputando in faccia al nemico. Pagarono con la vita il loro silenzio e il loro coraggio, ma il nemico, quando, a sera, si ritirò, dovette riportare indietro due camions colmi di morti e di feriti. Fu proprio in questa occasione che si rivelò la efficacia del nostro sistema di difesa; mentre il gruppo di Bruno Viola attirava sopra di sè il fuoco del nemico, il grosso della formazione aveva trovato modo di camuffarsi nei luoghi stessi in cui si trovava, senza rispondere al fuoco del nemico, data la schiacciante sua superiorità; in quei malcomodi nascondigli quegli uomini rimasero 72 ore, fino alla cessazione del fuoco e ne uscirono poi con le ossa rotte, ma sani e salvi. Questa tattica, da noi denominata “dell’uomo-talpa” ci consentì di riportare notevoli successi in più di mille azioni senza gravi perdite di uomini, assieme ai loro comandi; tutte queste forze, ormai collaudate da lunghi mesi di lotta partigiana, furono particolarmente utili nella stretta finale della guerra, quando il nemico, incerto fra la resa e un’ultima disperata difesa ai valichi alpini, fu costretto a gettare le armi proprio dall’imponenza dell’urto delle formazioni partigiane.
Lotta difficile la nostra non solo perchè ci trovavamo di fronte un nemico fortemente agguerrito e deciso a tenere liberi i passi, per lui vitali, da e per la Germania, ma anche per la presenza nella zona di formazioni partigiane, che intralciavano e ostacolavano seriamente la nostra azione: la divisione “Garemi” ebbe, in particolare, da salvaguardarsi dall’azione disgregatrice di un certo Marozin, che comandava una formazione di qualche centinaio di partigiani e che preferiva alle azioni contro i tedeschi l’attacco proditorio ai nostri gruppi, che dovevano passare attraverso la zona da lui presidiata. Per nostra fortuna questa formazione venne poi disciolta per l’incapacità dei suoi comandanti e per la rivolta delle popolazioni, che diverse volte avevano dovuto pagare duramente le imprese di Marozin. Nostra cura infatti era sempre stata di agire fuori delle zone che avrebbero potuto essere raggiunte dalla rappresaglia nazifascista; per questo motivò sceglievamo sempre come zona di operazione il Trentino, dove la popolazione era sotto la particolare protezione dei tedeschi e dove l’ostilità per il movimento partigiano era purtroppo molto diffusa. In settembre, quando i tedeschi si erano ormai attestati sul Sele (Emilia) e si era compreso che gli Alleati, per quell’anno (1944), non avevano intenzione di porre fine alla guerra in Italia, giunse come un fulmine a ciel sereno il proclama di Alexander, che invitava i partigiani a ritornare alle loro abitazioni; coscienti della gravità di una tale determinazione, che avrebbe significato la dissoluzione del movimento partigiano e probabilmente la morte di molti nostri compagni nelle azioni di rappresaglia del nemico, noi decidemmo di rimanere sulle montagne ad ogni costo. La situazione era quasi tragica

Schio, 29 aprile 1945, una foto storica: il partigiano Nestore Battaglia "Ercole" entra in piazza Alessandro Rossi proveniente da via Corobbo (oggi Carducci) a fianco di due paracadutisti tedeschi con bandiera bianca. È il momento in cui sono entrate nel vivo le trattative finali, dopo aspri combattimenti che lasciarono a terra una cinquantina di morti.

Schio, 29 aprile 1945, una foto storica: il partigiano Nestore Battaglia “Ercole” entra in piazza Alessandro Rossi proveniente da via Corobbo (oggi Carducci) a fianco di due paracadutisti tedeschi con bandiera bianca. È il momento in cui sono entrate nel vivo le trattative finali, dopo aspri combattimenti che lasciarono a terra una cinquantina di morti.

per i rifornimenti, si prospettava un inverno molto difficile; tuttavia decidemmo di rimanere, perchè comprendevamo che in primavera si sarebbe raccolto il frutto dei nostri lunghi sacrifici e non volevamo mancare all’appuntamento finale con il nemico, anche per dimostrare agli Alleati tutta l’importanza della nostra azione in una più rapida liquidazione delle forze nemiche sul nostro territorio. Il Comando Alleato, vista l’inutilità del proclama di Alexander, mobilitò i suoi uomini per fare azione di corruzione di alcuni capi garibaldini, ma sprecò il suo tempo. Anzi la stessa Missione Alleata, che ben conosceva l’efficacia della nostra tattica, si decise finalmente a inviarci i rifornimenti per tanto tempo promessi: 63 carichi, comprendenti ognuno una ventina di grossi fusti, che per noi costituirono un aiuto molto importante. In bunker già preparati all’uopo, i nostri partigiani nascosero tutta questa quantità di materiale e furono tanto abili nel far scomparire ogni traccia della località in cui avvenivano i lanci, che i tedeschi, che pure avevano presidi dovunque ci fosse un gruppo di case, non riuscirono mai a scoprirne nemmeno uno. La tattica dell’uomo-talpa, la gelosa vigilanza sui nostri comandi, il prezioso materiale nascosto nei bunker ci permisero di attaccare il nemico nella primavera del 1945 e di cogliere i migliori successi.

Schio, maggio 1945: una gran folla si è radunata in piazza Alessandro Rossi davanti al palco delle autorità partigiane. Da sinistra a destra si riconoscono, in primo piano, Orfeo Vangelista "Aramin", vice commissario della Divisione "Garemi"; il capitano John Orr-Ewing "Dardo" della missione inglese; Valerio Caroti "Giulio", comandante della Brigata "Martiri della Valleogra", col microfono; Sandro Cogollo "Randagio", commissario della "Martiri della Valleogra"; Nello Boscagli "Alberto", comandante della "Garemi". Dietro a Caroti, a sinistra Bruno Redondi "Brescia", comandante del Battaglione "Apolloni" e vice comandante della "Martiri della Valleogra", a destra Elio Busetto "Guglielmo", vice comandante della "Garemi"; dietro a Busetto Riccardo Walter, membro del nuovo governo cittadino. Sotto il palco al centro, infine, Anna Costenaro "Olga", la staffetta.

Schio, maggio 1945: una gran folla si è radunata in piazza Alessandro Rossi davanti al palco delle autorità partigiane. Da sinistra a destra si riconoscono, in primo piano, Orfeo Vangelista “Aramin”, vice commissario della Divisione “Garemi”; il capitano John Orr-Ewing “Dardo” della missione inglese; Valerio Caroti “Giulio”, comandante della Brigata “Martiri della Valleogra”, col microfono; Sandro Cogollo “Randagio”, commissario della “Martiri della Valleogra”; Nello Boscagli “Alberto”, comandante della “Garemi”. Dietro a Caroti, a sinistra Bruno Redondi “Brescia”, comandante del Battaglione “Apolloni” e vice comandante della “Martiri della Valleogra”, a destra Elio Busetto “Guglielmo”, vice comandante della “Garemi”; dietro a Busetto Riccardo Walter, membro del nuovo governo cittadino. Sotto il palco al centro, infine, Anna Costenaro “Olga”, la staffetta.

Fra questi costituisce un vanto la liberazione di Schio: quivi intendeva attestarsi la divisione Goering, famosa per la crudeltà dei suoi componenti, ma più per l’ottimo armamento, che la rendeva la più agguerrita e temibile; eppure nel giro di cinque ore la tracotanza dei tedeschi della Goering era domata: frutto di un abile piano, per cui i tedeschi credettero che la formazione partigiana, da cui erano attaccati, fosse solo un’avanguardia, ma anche del buon armamento di cui i partigiani erano dotati. Il fatto di Schio comprova che le nostre formazioni erano arrivate alla primavera del 1945 in perfetta efficienza di combattimento di modo che riuscirono a trascinare nella scia delle loro azioni anche numerosi civili, che vennero rapidamente inquadrati e gettati nella lotta. Si riuscì così in un’impresa, che sarebbe stato azzardato sperare: in tutta la zona da noi controllata i tedeschi non riuscirono a far saltare un solo stabilimento; furono salvati i lanifici Marzotto a Valdagno. il Lanerossi a Schio, le cartiere della Val d’Astico, gli impianti industriali di S. Giovanni d’Ilarione, come pure tante altre piccole industrie e tutte le piccole centrali elettriche disseminate nel nostro territorio. La lotta non fu naturalmente facile: più volte zone come quella di Valdagno passarono dalle nostre mani in quelle del nemico e viceversa, ma l’esito finale fu tra i più lusinghieri e le popolazioni della zona poterono, ad armistizio avvenuto, riprendere prontamente il loro lavoro e mettersi in grado di riparare più rapidamente che in altre zone ai guasti che la guerra aveva portato anche nelle loro case. Noi facemmo scattare il nostro piano di salvaguardia delle fabbriche un istante prima che i tedeschi dessero attuazione al loro, dando fuoco al tritolo già pronto nei punti strategici: tempestività, che ci veniva dalla perfetta conoscenza della situazione, per cui agimmo quando ancora il nemico riteneva di poter prolungare la sua disperata resistenza; cogliendo il nemico in contropiede e agendo con coraggio e decisione, potemmo dare alle popolazioni vicentine la sicurezza di un pronto e pacifico lavoro. La rabbia del nemico ebbe però un ultimo sfogo e si manifestò in tutta la sua brutalità contro il villaggio di Pedescala, che aveva dato al movimento partigiano i suoi figli più valorosi. SS tedesche, insieme con alcuni elementi delle brigate nere, asserragliarono tutti gli abitanti di questa località nelle loro case, che cosparsero poi di benzina e diedero alle fiamme. Lo spettacolo, che comparve ai nostri occhi quando vi giungemmo, fu tale che noi lo affidiamo alla memoria degli italiani, perchè non dimentichino: tra il fumo degli incendi spuntavano solo muraglie annerite e sulle soglie e nell’interno delle case tronconi anneriti di cadaveri umani. Il nemico, ormai vinto e battuto, ancora una volta aveva svelato la sua autentica natura.

Funerali solenni dei Partigiani a Schio, tra una selva di pugni chiusi

Funerali solenni dei Partigiani a Schio, tra una selva di pugni chiusi

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