La galassia nera su Facebook


Si parla molto del dilagare del fascismo sui social network, ce n’è per tutti i gusti: dalla nostalgia per il ventennio, veicolata tramite improbabili collezioni di meriti della dittatura, fino ai molti modi in cui il fascismo di un tempo si reinventa in reali formazioni politiche che tramite i social network fanno proseliti e diffondono la propria ideologia. Da una parte un pericoloso essere fuori dal mondo, dall’altra un uso strategico di strumenti di comunicazione di massa.

Ma quante sono davvero queste pagine? Quali sono le più importanti? In che relazione sono fra di loro? Quanto sono seguite? Sono domande importanti per comprendere il fenomeno e per dargli il corretto ordine di grandezza.
Abbiamo provato a rispondere.

Vai alla mappa del fascismo e dell’estremismo di destra su Facebook

Vista la mole di dati e le tecnologie coinvolte è necessario consultare la mappa con browser e computer relativamente recenti. Schermi più grandi permettono una consultazione più agevole.
È un progetto sperimentale, sono possibili errori e mancanze.

Dragando le pagine di Facebook abbiamo costruito una mappa navigabile con cui è possibile farsi un’idea d’insieme e scoprire le singole realtà.
Questa grande mappa contiene circa 2700 pagine Facebook dell’estremismo di destra italiano.

Intanto definiamo cosa intendiamo per “estremismo di destra italiano”.
Abbiamo incluso in questa definizione tutti i gruppi politici che si sentono eredi dell’ideologia fascista e le organizzazioni che rifiutano la cosiddetta “svolta di Fiuggi” del 1995, quando il Movimento Sociale Italiano volle segnare una discontinuità con le proprie origini.
Sono poi inclusi i movimenti neonazisti e le declinazioni italiane dell’estremismo di destra di altri Paesi. Sono incluse anche quelle pagine che, come prassi continuativa, diffondono e condividono la propaganda di questi gruppi.
Infine abbiamo deciso di includere i gruppi musicali che si muovono in quegli ambienti e le numerose pagine nostalgiche.
Abbiamo escluso tutte le pagine che non fossero almeno in buona parte in lingua italiana.

Per tutte queste pagine (che, si noti, sono cosa diversa dagli account personali e dai gruppi di discussione, ugualmente presenti su Facebook) abbiamo collezionato vari dati e i “mi piace” che hanno dato ad altre pagine.

I dati presentati sono aggiornati al 3 dicembre 2016.

Il risultato
Il risultato è un grafo di oltre 9000 pagine, ovvero le 2700 pagine effettivamente appartenenti all’estremismo di destra più tutte le altre pagine che non rientrano nella nostra ricerca e che però hanno ricevuto un “mi piace” da almeno una pagina dell’estrema destra.
Nella mappa ogni pagina è rappresentata da un cerchio, un “mi piace” da pagina a pagina è rappresentato da una curva che collega due diversi cerchi.

La mappa è organizzata in maniera tale che le pagine che si “piacciono” tendono ad essere vicine, così che gli insiemi di pagine dove con più intensità si scambiano i “mi piace” tendono a raggrupparsi.
C’è anche un gruppo di pagine isolate dalla componente principale del grafo, organizzate in forma di quadrato, in basso sulla destra. Si tratta di pagine che non hanno messo alcun “mi piace” ad altre pagine e che neppure ne hanno ricevuti, o che si scambiano i “mi piace” in piccoli gruppi appartati.

La legenda dei colori potete trovarla cliccando sul pulsante delle informazioni. Notate che, mentre la maggioranza delle formazioni politiche ha un colore comune, ad alcune di esse è stato assegnato un colore speciale: abbiamo voluto evidenziare in questa maniera le formazioni che riteniamo abbiano un atteggiamento nuovo nell’organizzarsi e nel rappresentarsi.

Si tratta in particolare delle seguenti:

Forza Nuova
Nasce nel 1997 mentre i fondatori sono ancora latitanti all’estero per reati collegati al terrorismo nero[1]. Ispirata ad un’identità politica legata alla rivalutazione di alcuni aspetti del fascismo storico, si presenta alle elezioni locali e nazionali sin dal 1999.
Da tempo presente in tutta Italia con proprie sedi, sia come partito che con organizzazioni collegate.

CasaPound Italia
Nata dall’occupazione di un immobile a Roma si struttura come movimento politico nel 2009 e conosce una forte espansione che la porta ad essere presente in tutta Italia.
Formazione caratterizzata da un neofascismo[2] “disinvolto”, capace di usare a proprio vantaggio temi e volti distanti od opposti alla propria matrice, ha ottenuto alcuni risultati significativi nelle elezioni amministrative a partire dal 2011.
Presente in tutta Italia con proprie sedi, sia come partito che con organizzazioni collegate. Esistono alcune esperienze politiche fuori dell’Italia che guardano a CasaPound Italia come modello.

Comunità militanti
Sotto questa denominazione si trovano esperienze politiche eterogenee, si va dai centri sociali indipendenti a raggruppamenti vicini a questo o quel movimento.
Il nome più noto è probabilmente la Comunità militante Raido, di Roma.

Lealtà – Azione
Nasce nel 2010 a Milano, con varie sedi in Lombardia e in decisa espansione nel centro-nord. I personaggi di riferimento sono il politico belga e ufficiale delle SS Léon Degrelle ed il politico rumeno Corneliu Z. Codreanu [3].

Generazione Identitaria
Declinazione italiana di Génération Identitaire, movimento fondato nel 2012 in Francia e presente in vari paesi europei.

Movimento Patria Nostra
Di matrice socialfascista[4].

Unione per il Socialismo Nazionale – R.S.I.
Di ispirazione socialnazionalista.

Azione Identitaria
Nasce nel 2016 da una scissione di Generazione Identitaria.

Casaggì
Nasce a Firenze nel 2005 come centro sociale. Riconducibile all’esperienza delle Comunità militanti, si sta espandendo in maniera autonoma in Toscana ed altre regioni italiane.

Le altre formazioni considerate individualmente sono quelle con almeno 3 pagine facebook a loro attribuibili: Fronte Nazionale, Movimento Idea Sociale, Movimento Sociale Fiamma Tricolore, Fiamma Nazionale, Fronte Patriottico, Destra Sociale, Progetto Nazionale, Movimento Fascismo e Libertà, Movimento Italia Sociale, Difesa Sociale, Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale (ricostituzione del partito omonimo sciolto nel 1995), Avanguardia Nazionale (ricostituzione dell’organizzazione politica messa fuorilegge nel 1976), Movimento Sovranità e Difesa Sociale, Movimento Patria Sociale, Azione Dannunziana, Alleanza Calabrese, Azione Frontale, Nuovo Ordine Nazionale, Azione.

Come leggere la mappa
La dimensione dei cerchi dipende dal numero di “mi piace” provenienti da altre pagine e può essere considerata una misura dell’importanza rivestita nel proprio settore.
È poi possibile, cliccando sul pulsante delle Opzioni, variare la dimensione dei cerchi in maniera tale che rispecchi altre metriche. Le possibilità più interessanti sono:

il numero di fan, ovvero il numero di persone che seguono quella pagina (questo valore è messo a zero per pagine non fasciste);
il numero di interazioni, cioè la somma dei “mi piace” ricevuti sui post, delle condivisioni, delle menzioni e di tutti gli altri parametri che contano una qualche interazione degli utenti con la pagina nell’ultima settimana, Facebook chiama questo numero “talking about” (anche questo valore è messo a zero per pagine non fasciste);
le interazioni per fan, cioè il rapporto fra i due precedenti valori, che si può interpretare come quanto “bene” sta facendo la pagina relativamente alle proprie possibilità (come riferimento si consideri che un valore di 0.1 è già un risultato rilevante), un alto rapporto può corrispondere ad una forte espansione del numero di fan;
il PageRank, che costituisce una misura dell’importanza rivestita dalla pagina nell’intera rete presa in considerazione.
Si noti che i valori numero di interazioni e interazioni per fan assumono un significato particolare, in quanto si riferiscono ai sette giorni precedenti lo svolgimento del referendum costituzionale che si è tenuto il 4 dicembre 2016.

Come si strutturano le formazioni dell’estrema destra
Salta subito all’occhio come le due formazioni di maggior rilievo siano Forza Nuova e CasaPound Italia. Sono anche le formazioni più strutturate, con una presenza massiccia sul territorio italiano ed un diramarsi in un sottobosco di associazioni che penetrano ogni ambito del sociale.
Oltre alla capillare diffusione nel territorio la caratteristica che ci appare più importante è appunto la strategia di declinarsi nell’associazionismo.

Per mostrare la dimensione del fenomeno abbiamo sintetizzato in una tabella le principali associazioni (ben lungi dall’essere le sole) incrociando i temi trattati e la formazione di riferimento.

Forza Nuova CasaPound Italia
Organizzazioni studentesche Lotta Studentesca Blocco Studentesco
Temi del lavoro Sindacato BLU
Salute e disabilità Dipartimento disabilità Braccia tese
Grimes
Impavidi destini
Ecologia Avamposto Verde La foresta che avanza
Agricoltura e prodotti della terra Lega della Terra IT – Scelte d’identità
Escursionismo La Muvra
Comunicazione e Cultura Ordine Futuro
Radio FN Primato Nazionale
Radio Bandiera Nera
Solidarietà e protezione civile Solidarietà Nazionale La Salamandra
Solid
Comitati cittadini e di quartiere Passeggiate per la sicurezza
Difendiamo i nostri quartieri (Roma)
Bologna ai bolognesi
Brescia ai bresciani
Riprendiamoci Bolzano
Riprendiamoci Lucca

Temi femminili e dell’infanzia Associazione Evita Peron Tempo di essere madri
Temi religiosi Christus Rex
Abbigliamento Forzanovista.org Pivert
Lealtà – Azione Generazione Identitaria
Organizzazioni studentesche Gruppo Alpha
Temi del lavoro Identità e Lavoro
Ecologia I lupi danno la zampa
Escursionismo Lupi delle vette
Comunicazione e Cultura Identità e tradizione
Associazione memento Atrium
Solidarietà e protezione civile Bran.co
CooXazione
Movimento Patria Nostra Unione per il Socialismo Nazionale
Organizzazioni studentesche Studenti Antagonisti I Ghibellini – Confederatio
Temi del lavoro Italia Proletaria
Ecologia Animalia
Agonia Ambientale
Comunicazione e Cultura Controassedio – Confederatio
Parabellum – Confederatio
Temi femminili e dell’infanzia L’Albero delle Meraviglie
Di particolare rilievo anche la lista elettorale Sovranità che è il nome con il quale CasaPound Italia sostiene le candidature della Lega Nord.
Per non menzionare le librerie, le case editrici, i centri culturali, i gruppi sportivi, gli spazi occupati o i pub.

Quali usi per questa ricerca?
Consapevolezza
Innanzitutto la consapevolezza.
È necessario conoscere l’estensione e la complessità del fenomeno. Dire “sono fascisti” non può più bastare, sempre che sia mai bastato. Perché la frammentarietà di questa area politica è anche il risultato di profonde differenze fra le varie formazioni, che non di rado si scontrano, e che significano idee diverse, strategie diverse, persone diverse.

Cittadinanza
È fondamentale per ogni cittadino saper riconoscere le sigle ed i simboli del neofascismo.
Bisogna sapere che dietro una raccolta di cibo per un canile, dietro una partita di pallone per sensibilizzare sui drammi della pedofilia, dietro una giornata a raccogliere i rifiuti abbandonati in un parco può nascondersi il tentativo di ottenere visibilità e riconoscimento sociale da sfruttarsi successivamente in chiave politica.
Al di là dell’esplicita alleanza elettorale fra CasaPound Italia e la Lega Nord di Matteo Salvini e dei rapporti che la stessa Lega Nord intrattiene con esponenti di Lealtà – Azione o ancora dei percorsi comuni fra Fratelli d’Italia e Casaggì, alcune di queste formazioni hanno continui contatti e collaborazioni con esponenti di partiti importanti. Una strategia “entrista” che crea ponti verso rive fino a pochi anni fa insperate.

Istituzioni e vigilanza democratica
La vigilanza delle istituzioni è insufficiente.
Capita di vedere convegni di neonazisti ospitati in illustri palazzi istituzionali, con l’introduzione di alte cariche pubbliche. Questo avviene quasi sempre e troppo spesso perché è difficile tenere traccia delle reali origini di questa o quella organizzazione. L’approvazione di questi incontri è affidata di norma ad uffici tecnici in cui mancano le conoscenze per riconoscere gli effettivi intenti politici di associazioni che non si mostrano con il loro vero volto.
Questa ricerca vuole dunque anche essere uno strumento empirico al servizio delle istituzioni, perché ideologie di oppressione e violenza non trovino spazio in seno ai luoghi della democrazia.

Alcune considerazioni
La documentazione del fenomeno del neofascismo e dell’estremismo di destra non è una novità in Italia, ci sono e ci sono stati vari sforzi in questo senso. Vale citare almeno l’Osservatorio democratico sulle nuove destre.
L’approccio tenuto in questa ricerca è però sia diverso che complementare a questi sforzi, non solo per la sintesi grafica che ha garantito: è uno sguardo complessivo sulla presenza dell’estrema destra sui social network, si basa su dati oggettivi e che per questo possono essere sottoposti ad analisi con metodo scientifico.

Naturalmente possono sorgere delle domande. Ad esempio: stiamo parlando di cosa, dell’estremismo o di come questo estremismo rappresenta se stesso? Ma il neofascismo è come si rappresenta?
Nel vagliare queste migliaia di pagine ci sembra che emergano interessanti affinità fra i diversi neofascismi ed il modo in cui questi si autorappresentano. Ci sembra insomma che al di là della mole di dati, che per ampiezza è interessante di per sé, la struttura che si scorge sia rappresentativa di caratteristiche reali e non virtuali.
Ovviamente mancano all’appello tutte quelle realtà che non sono presenti su Facebook o che hanno una presenza di tipo diverso da una pagina, ma anche questo non ci sembra impattare molto sugli aspetti generali della ricerca.

La questione è aperta, ulteriori approfondimenti ci permetteranno di definire con maggiore chiarezza i limiti ed i punti di forza.

Avanzamento e sviluppi del progetto
Quello che si può vedere fino ad adesso è solo una prima elaborazione.
Intanto è in stesura un articolo molto più dettagliato e di natura tecnica: esiste una branca di studio, che si chiama appunto Analisi di Reti Sociali, che applica metodi matematici per ottenere informazioni raffinate su questo tipo di reti. Sarà pubblicato durante la prima parte del 2017.
Poi certamente tutti questi dati saranno oggetto di ulteriori revisioni: ci sono certamente pagine che non abbiamo trovato e che andranno aggiunte, ci sono probabilmente dei refusi a cui porre rimedio. A questo proposito tutti sono invitati a segnalarci eventuali errori e mancanze a redazione@patriaindipendente.it

Infine è chiaro che sarà molto interessante capire come tutti i dati raccolti cambieranno nel tempo.
A presto.

[1] Roberto Fiore e Massimo Morsello sono stati condannati per associazione sovversiva e banda armata, nel 1987, rispettivamente a 5 anni e 6 mesi e a 8 anni e 10 mesi per il ruolo svolto in Terza posizione e nei Nar (da Wikipedia).

[2] Intervista video a Gianluca Iannone, presidente di CasaPound Italia: «Vi piace la definizione di “Fascisti del Terzo Millennio”?» – «A noi ci piace “Fascisti”»

[3] Dalla sezione “Pensiero e valori” del sito di Lealtà – Azione.

[4] Dalla sezione “Linee politiche e programma” del sito del Movimento Patria Nostra.

da http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/inchieste/la-galassia-nera-su-facebook/

 

 

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Camillo Berneri, martire anarchico

Fin dall’inizio della guerra civile spagnola il contrasto delle forze antifasciste europee che andavano sperimentando sul quel campo di battaglia la loro incapacità di unirsi per prevenire l’aggressione ormai incombente, condizionò ed esasperò gli animi delle forze politiche in campo repubblicano. Se dietro il generale Franco vi era l’Asse Roma-Berlino, dietro la repubblica si registrava lo sbandamento delle democrazie occidentali, riluttanti a stringere quell’alleanza con l’Unione Sovietica che avrebbe potuto scongiurare la guerra.
Il non intervento che, nelle intenzioni di Londra e di Parigi, avrebbe impedito il degenerare del conflitto in campo internazionale, finiva invece per consegnare il governo repubblicano nelle mani dell’unica potenza che, pur con tutte le cautele del caso e sulla base di pesanti condizioni, era disposta a controbilanciare le forniture d’armi che dall’Italia e dalla Germania pervenivano a Franco. Ciò finì inevitabilmente per plasmare il fronte popolare sullo stampo comunista.
Erano passati, infatti, appena nove mesi dall’inizio della guerra civile spagnola, quando i contrasti politici esistenti in campo repubblicano sfociarono in scontro aperto in molte località della Spagna.

La posta in gioco era altissima: si trattava di difendere la sopravvivenza delle milizie rivoluzionarie e delle esperienze di socializzazione economica. Da un lato c’era il Governo repubblicano di Largo Caballero egemonizzato dai comunisti, dall’altro stavano gli anarchici e i poumisti, convinti che la guerra sarebbe stata vinta solo trasformando il conflitto in rivoluzione sociale e sottraendo la guida degli avvenimenti agli agenti di Mosca.
La situazione era dunque grave e densa di pericoli. Agenti segreti di Stalin e dirigenti della Terza Internazionale avevano iniziato da tempo e con sistematicità l’occupazione dei posti chiave del Governo centrale, nella polizia e nell’esercito. Stalin aveva dato l’incarico a Yagoda, capo della Gpu, di organizzare in Spagna una polizia segreta simile in tutto e per tutto a quella sovietica. Questi, il 14 settembre del 1936 convocò una riunione alla Lubianka con i suoi più fedeli collaboratori, tra i quali ricordiamo Frinovski, capo delle forze militari della Gpu, Sloutzki, responsabile della sezione esteri della Gpu e il generale Ouritski dello stato maggiore dell’esercito. Orlov fu incaricato di installare in Spagna la sezione della Gpu. Il generale Walter G. Krivitsky fu nominato responsabile degli invii dall’estero delle armi alla Spagna.
Nel dicembre del 1936 erano state ricostituite tutte le forze di polizia precedentemente sciolte: la Guardia d’assalto, la Guardia civile, che divenne poi Guardia nazionale repubblicana, i Carabinieri (polizia di frontiera).
A Barcellona, che era il centro dell’attività rivoluzionaria, divenne capo della polizia Rodrigo Sala del Psuc, mentre Ayguader fu nominato consigliere della Sicurezza.

Ma ben più gravi segnali vi erano stati nei mesi precedenti. Anche in Spagna, come in Urss, era iniziata la caccia all’eretico, al socialfascista, al trotzkista. Le purghe staliniane che in Urss dopo la morte di Kirov raggiungevano chiunque fosse sospettato di opporsi a Stalin, in Spagna si traducevano nella scomparsa di dirigenti e militanti delle altre forze politiche, nella polemica più aspra nei confronti degli anarchici e dei poumisti nella falsificazione dei fatti, nell’isolamento politico e organizzativo delle milizie dei volontari.
Il 28 novembre del 1936 il Console Generale Sovietico a Barcellona, Vladimir Antonov Ovscenko [1] con una nota alla stampa denunciava la Batalla, organo ufficiale del Poum (il partito di unità marxista), come facente parte della stampa venduta al fascismo internazionale. Il 17 dicembre la Pravda scriveva: “In Catalogna è cominciato il ripulisti degli elementi trotzkisti e anarco-sindacalisti, quest’opera sarà condotta come nell’Urss” Il 18 dello stesso mese infatti si insediava un nuovo governo della Generalidad senza la presenza dei rappresentanti del Poum.
Lo stesso Palmiro Togliatti, sul quale ritorneremo, nel mese di novembre del 1936 aveva d’altra parte scritto su Stato Operaio, un articolo nel quale collegava la fortuna del movimento anarchico spagnolo con le “sopravvivenze feudali” e giudicava le organizzazioni anarco-sindacaliste come un ostacolo allo “spirito di organizzazione e disciplina che sono proprie del proletariato”.
Poiché il rifornimento delle armi proveniva principalmente dall’Urss, grazie alla riserva aurea della Banca di Spagna, il Pce e i suoi alleati divennero in breve tempo gli arbitri della situazione militare. Le milizie, composte da volontari accorsi da oltre 50 paesi, furono così deliberatamente lasciate prive di armi di fronte al nemico e invitate ad autosciogliersi. Con decreto del 31 dicembre 1936 fu inoltre stabilito che la paga dei combattenti fosse distribuita ai soli battaglioni dell’esercito regolare.
A tale disegno egemonico la potente Fai – Cnt, forte di oltre 500.000 aderenti, non seppe opporsi in modo coerente e risoluto. Preoccupati di non lacerare ulteriormente il fronte repubblicano, nella speranza che i fatti potessero poi volgersi a loro favore, gli anarchici accettarono d’entrare a far parte del Governo centrale, oltre che in quello regionale della Catalogna, illudendosi così di poter salvaguardare l’esistenza delle milizie volontarie.

In realtà al loro interno convivevano diverse sensibilità circa la gravità del momento. Mentre i dirigenti nazionali proponevano compromessi che fatalmente si trasformavano in una loro ulteriore sconfitta, i volontari, specie quelli italiani, difendevano a oltranza la loro specificità, rifiutandosi di sottomettersi al potere centrale.
Altre organizzazioni spagnole si collocarono su posizioni d’opposizione rispetto a quelle sostenute dalla stessa Fai. Ricordiamo il quotidiano Acracia di Lerida, diretto da José Peirats; la rivista Ideas e le organizzazioni giovanili libertarie con il loro organo di stampa Ruta; il gruppo Los Amigos de Durruti con il giornale El Amigo del Pueblo. I loro capi rispondevano al nome di Jaime Balins, Carrenò, Pablo Ruiz, Eleuterio Ruig. Tra i gruppi anarchici che resistettero più a lungo alla militarizzazione ci fu la Colonna de Hierro, forte di circa 3.000 membri. Solo nel marzo del 1937 nel corso dell’Assemblea generale questa accettò di militarizzarsi e divenne l’83a Brigata dell’esercito regolare.
Su ordine di Stalin si andava intanto sviluppando e perfezionando il piano per la liquidazione del Poum, accusato d’essere una forza politica di ispirazione trotzkista.
Carlo Roncoli nell’articolo Nemici del Popolo, apparso su il Grido del Popolo del 7 marzo 1937, scriveva a proposito del Poum che “i trotzkisti devono essere posti, anche con delle misure di repressione, nella impossibilità di proseguire la loro opera delittuosa”. La Pravda dal canto suo il 22 marzo 1937 attaccava il giornale anarchico Solidaridad Obrera, reo di aver riportato nel suo numero del 6 marzo “un oltraggioso attacco contro la stampa sovietica. Questa vergognosa difesa dei traditori trotzkisti, proviene da quegli elementi che si sono subdolamente infiltrati nei ranghi dell’organizzazione anarco-sindacalista”.
Ancora il 1 maggio 1937 l’Internazionale Comunista lanciava un appello a tutti i lavoratori con un preciso e minaccioso riferimento alla situazione spagnola: “Scacciate dalle vostre file quegli agenti del fascismo che sono i trotzkisti, i peggiori nemici dell’unità della classe operaia, i disgregatori e i sabotatori di guerra, spie camuffate della Quinta Colonna del generale Franco”.
Da tempo in diversi centri della Spagna repubblicana si andavano moltiplicando fatti sanguinosi, la cui dinamica era destinata a rimanere il più delle volte oscura. Furono sospesi uno dietro l’altro i quotidiani Cnt di Madrid, Nosostros di Valenza, Cnt di Bilbao e Castille libre. A fine gennaio ‘37 si svolse il congresso dei lavoratori della terra dell’Ugt. Sulla tribuna, a testimonianza del profondo dissenso politico con gli anarchici, campeggiava un cartellone con la scritta “Meno esperimenti collettivisti e più prodotti”.
Il 4 marzo un decreto del consigliere catalano all’ordine pubblico dichiarò sciolte le pattuglie di controllo (squadre di proletari armati responsabili dell’ordine pubblico) e proibì ai poliziotti regolari d’iscriversi a partiti o sindacati. Anche tale decisione, come è evidente, procurò scontri tra le opposte fazioni e non contribuì certo a riportare la pace tra i contendenti.

Dopo gli scontri di Puigcerdá e a Figueras, un episodio ben più grave scosse gli animi: il 25 aprile venne misteriosamente assassinato a Molina de Llobregat il dirigente della Ugt, Roldan Cortada. Il Psuc denunciò quali responsabili gli incontrollabili anarchici e gli agenti fascisti, nascosti a suo dire nella Cnt e nella Fai. La Cnt, per parte sua, condannò l’assassinio e pretese un’inchiesta ufficiale. Gli anarchici arrestati perché considerati colpevoli dell’assassinio vennero rilasciati il 30 aprile. Due giorni dopo la morte di Cortada, tuttavia, vicino a Puigardé, tre militanti anarchici furono trovati uccisi. Anche le trattative avviate tra Cnt e Ugt per una celebrazione unitaria del 1 maggio fallirono e Barcellona non vide alcuna manifestazione.
In tutto questo quadro complicato emerse con forza la personalità, il pensiero e la vicenda umana di Camillo Berneri, l’anarchico italiano più noto e stimato in terra di Spagna.


Berneri era giunto in Spagna a metà luglio del 1936 e si era subito messo al lavoro per dare vita, in accordo con la Cnt-Fai, a una formazione combattentistica di volontari italiani. Con l’aiuto di Carlo Rosselli e Mario Angeloni il 17 agosto costituì la sezione italiana mista della Colonna Francisco Ascaso della Cnt-Fai, detta più semplicemente Colonna italiana.
Essa era formata in larga misura da volontari anarchici, da qualche repubblicano, da esponenti giellisti e da pochi comunisti.
Il battesimo del fuoco, avvenuto sulle montagne nei pressi di Huesca, fu contrassegnato da gravi perdite e numerose prove d’eroismo.
In sostituzione del comandante Angeloni, che trovò la morte nei primi combattimenti, fu designato Carlo Rosselli, mentre Berneri assunse il ruolo di commissario politico della formazione. Egli era la voce degli anarchici italiani e rappresentava la coscienza critica del fronte antifascista spagnolo. Da radio Cnt-Fai di Barcellona e dalle colonne del suo giornale Guerra di Classe divulgava le sue convinzioni politiche circa la conduzione della guerra, sollecitava maggiore coerenza da parte della Fai, denunciava i pericoli di involuzione autoritaria, attaccando frontalmente il settarismo comunista e le ingerenze sovietiche in Spagna.
Tutta la sua vita stava d’altra parte a testimoniare la sua irriducibile coerenza rivoluzionaria e la sua indipendenza culturale. Nel 1926 aveva abbandonato l’Italia per la Francia, divenendo ben presto, grazie alle ripetute espulsioni da quasi tutti i paesi europei, l’antifascista più espulso d’Europa, ma anche uno dei più stimati esponenti dell’anarchismo internazionale.

Laureato, giornalista, saggista era considerato l’interlocutore politico di riferimento in campo anarchico da parte dei massimi esponenti dell’antifascismo internazionale. Gaetano Salvemini, i fratelli Rosselli, i socialisti Pertini e Nenni, il repubblicano Montasini e molti altri lo ebbero come amico fraterno e insostituibile compagno di lotta.
L’originalità del suo anarchismo, lui stesso ebbe a definirsi un anarchico “sui generis”, che si sforzava di attualizzare i principi anarchici, liberandoli dai troppi vecchi e superati stereotipi ideologici, lo portò ad affrontare in termini nuovi i grandi temi legati alla complessità della società moderna: l’antiautoritarismo, il federalismo, l’antimilitarismo, l’anticlericalismo, l’organizzazione del lavoro, l’educazione scolastica e la psicanalisi.
La sua prima esperienza politica si era svolta, fino al 1916, nell’ambito della Fgs di Reggio Emilia, alla scuola dell’umanesimo socialista di Camillo Prampolini. Dal suo primo maestro ereditò il rigore morale e una acuta sensibilità per l’azione politica volta a un più accentuato pragmatismo sociale.
Anche molti anni dopo ricorderà con affetto il maestro che, nell’ora del distacco, ebbe per lui parole di comprensione e di rispetto.
Da quel momento e per tutta la sua breve vita, era nato a Lodi il 20 maggio 1897, Camillo Berneri spese ogni sua energia al servizio della causa libertaria: fondò testate giornalistiche, pubblicò libri, promosse convegni, organizzò l’attività politica in Italia e all’estero, rivisitò e sistemò il pensiero anarchico.
Gli insegnamenti di Gaetano Salvemini, Carlo Cattaneo, Pietro Gobetti, Camillo Prampolini, Errico Malatesta e Luigi Fabbri furono da lui rielaborati fino a farne i presupposti del suo moderno anarchismo.
Fu dunque con questa fama di fine intellettuale, ma anche di deciso uomo d’azione che egli giunse in Spagna nel luglio del 1936. I maggiori esponenti della Fai iberica Durruti, Oliver, Ascaso, De Santillan lo avevano già conosciuto anni prima in Francia quando, con altri anarchici fuoriusciti, avevano cercato di dare vita a un Fronte Antifascista Internazionale.

Il suo arrivo a Barcellona fu quindi accolto con gioia da tutta la Fai e dal suo sindacato Cnt. Tutti compresero l’importanza d’averlo al loro fianco, proprio quando, oltre all’azione militare, c’era la necessità di comprendere meglio ciò che stava accadendo, le reali intenzioni delle forze in campo, gli interessi interni e quelli internazionali che si stavano fronteggiando.
E l’analisi di Berneri non si fece attendere.
Fra gli atti più importanti compiuti in quei giorni vi è certamente la lettera da lui scritta alla compagna e ministro del governo centrale Federica Montseny nella quale tra l’altro affermava:

“Nel tuo discorso del 3 gennaio, tu dicesti: ‘Gli anarchici sono entrati nel governo per impedire che la rivoluzione deviasse e per continuarla al di là della guerra ed altresì per opporsi ad ogni eventuale tentativo dittatoriale, quale che sia’.
Ebbene, compagna, nell’aprile, dopo tre mesi di esperienze collaborazioniste, siamo in una situazione nella quale avvengono gravi fatti e se ne profilano altri peggiori…Il governo è in Valenza, e di là partono reparti di guardie d’assalto destinati a disarmare nuclei rivoluzionari di difesa….Questo mentre è evidente una politica di distribuzione di armi tendente a non armare che lo stretto indispensabile il fronte d’Aragona, scorta armata della collettivizzazione agraria e contrafforte del Conseyo d’Aragon, della Catalogna, l’Ukraina iberica. Tu sei in un governo che ha offerto alla Francia e all’Inghilterra vantaggi al Marocco, mentre dal luglio 1936 sarebbe stato necessario proclamare ufficialmente l’autonomia politica marocchina….
Voi, anarchici ministri, tenete dei discorsi eloquenti e scrivete degli articoli brillanti, ma non è con questi discorsi e con questi articoli che si vince la guerra e si difende la rivoluzione. Quella si vince e questa si difende permettendo il passaggio dalla difensiva all’offensiva. La strategia di posizione non può eternizzarsi…
Noi assistiamo alla penetrazione nei quadri direttivi dell’esercito popolare di elementi equivoci, non garantiti da alcuna organizzazione politica e sindacale. I comitati e i delegati politici delle milizie esercitavano un salutare controllo, oggi indebolito dal prevalere di sistemi di assunzione e di promozione centralisti e strettamente militari…
Gravissimo errore è stato quello di accettare delle formule autoritarie, non perché queste fossero formalmente tali ma perché esse racchiudevano errori enormi e scopi politici che nulla hanno a che fare con le necessità della guerra… Credo sia giunta l’ora di costituire l’esercito confederale, come il partito socialista ha creato un proprio esercito: il 5° reggimento delle M.P. Credo sia giunta l’ora di risolvere il problema del comando unico realizzando un’effettiva unità di comando che permetta di passare all’offensiva sul fronte aragonese… Io credo che tu debba porti il problema se difendi meglio la rivoluzione, se porti un maggiore contributo alla lotta contro il fascismo partecipando al governo o se saresti infinitamente più utile portando la fiamma della tua magnifica parola tra i combattenti e nelle retrovie… Bisogna parlare alle masse… Chiamarle a giudicare se certe sabotatrici manovre annonarie non rientrano nel piano annunciato il 17 dicembre 1936 dalla Pravda: ‘In quanto alla Catalogna è cominciata la pulizia degli elementi trotzkisti e anarco-sindacalisti, opera che sarà condotta con la stessa energia con la quale la si condusse nell’Urss’ …
Il dilemma è uno solo: o la vittoria su Franco mediante la guerra rivoluzionaria o la sconfitta.
Il problema per te e per gli altri compagni, è di scegliere tra la Versailles di Thiers e la Parigi della Comune, prima che Thiers e Bismark facciano l’union sacrée. A te la risposta, poiché tu sei la ‘fiaccola sotto il moggio’.
Fraternamente. C.B.” [2]

Un altro significativo e provocatorio articolo fu steso da Berneri per L’Adunata dei Refrattari con lo scopo di difendere il Poum dagli attacchi degli stalinisti. Anche quell’articolo non contribuì certo a procurargli simpatie da parte comunista, che non smise di seguire con attenzione crescente la sua attività. In quell’occasione affermò:

“Seguendo le istruzioni del governo dell’Urss, la stampa della Terza Internazionale ha scatenato e continua a scatenare una violenta campagna contro il Poum… Tale campagna è di una tendenziosità e di una violenza inaudite. Il giornalista bolscevico Mihail Roltsov accusa, in blocco, i militi del Poum di essere dei vili e si compiace nel riferire che ‘i distaccamenti del Poum delle brigate internazionali sono stati disciolti e i loro comandanti cacciati dal fronte di Madrid’.
È Mosca che ha impedito alla Spagna antifascista di ospitare Trotzki, ha opposto il veto all’entrata della rappresentanza del Poum nella Giunta di Difesa di Madrid e nel Consiglio della Generalidad di Catalogna… Contro le mire egemoniche e le manovre oblique del Psuc noi dobbiamo instancabilmente ed energicamente affermare l’utilità della libera concorrenza politica in seno agli organismi sindacali e l’assoluta necessità dell’unità di azione antifascista. Bisogna dire ben altro che chiunque insulta il Poum e ne chiede la soppressione è un sabotatore della lotta antifascista che non va tollerato. Questa presa di posizione, oltre che aderire alle necessità della grave ora e rispondere allo spirito dell’anarchismo, costituisce la migliore profilassi contro la dittatura controrivoluzionaria che vieppiù si profila nel programma di restaurazione democratica del Psuc e nella disgiunzione tra rivoluzione e guerra di alcuni rivoluzionari miopi e disorientati”. [3]

L’attività politica di Berneri andava contemporaneamente in diverse direzioni. Egli affrontò infatti quasi tutti i temi al centro del dibattito tra le forze impegnate in Spagna e si sforzò di chiarire quelli che a suo avviso costituivano i terreni di confronto più significativi. Possiamo in ogni caso e per comodità espositiva dire che Berneri si occupò prevalentemente di tre temi:
1. Lo studio degli incartamenti attestanti la preparazione fascista dell’invasione della Spagna, attraverso la conquista delle Baleari;
2. La sorveglianza delle attività clandestine delle spie fasciste e della Quinta Colonna;
3. L’attività di propaganda a mezzo radio e giornale delle sue idee e della reale situazione della guerra.
Con tutta probabilità furono proprio questi argomenti e quelli già riportati a segnalarlo quale pericoloso rivoluzionario e a far sì che la polizia comunista lo sorvegliasse molto da vicino, fino a decretarne la fine nel mese di maggio del 1937.

di Fabrizio Montanari
(pubblicato su 24emilia.com)

Abbreviazioni
P.S.U.C. – Partido Socialista Unificado de Cataluña
P.O.U.M. – Partido Obrero de Unificación Marxista
U.G.T. – Unión General del Trabajo
P.C.E. – Partido comunista Espagnol
C.N.T. – Confederación Nacional del Trabajo
F.A.I. – Federazione anarchica iberica
G.P.U. – Polizia segreta sovietica
[1] Antonio Ovscenko: aveva guidato l’assalto al Palazzo d’Inverno. Sbarcò a Barcellona il 1° ottobre 1936.
[2] Lettera aperta alla compagna Federica Montseny in Guerra di Classe, Barcellona, a. II, n.12 del 14 aprile 1937.
[3] Pubblicato sotto il titolo Noi e il Poum su L’Adunata dei Refrattari (New York) del 1 e dell’8 maggio 1937.

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Georg Elser, l’uomo che cercò di uccidere Hitler

George Elser (Hermaringen, 4 gennaio 1903 – Dachau, 9 aprile 1945)

I due doganieri appostati davanti a una delle finestre del collegio Wessenberg a Costanza ascoltavano alla radio con attenzione il discorso del ‘Führer’ da Monaco. Era l’anniversario del ‘Putsch’ del 8 novembre 1923 nel quale erano morti sedici vecchi camerati di Hitler. E come ogni anno il dittatore parlava davanti ai vecchi camerati di quella prima battaglia e ad alcuni dirigenti del partito nel famoso Bürgerbräukeller dove 16 anni prima era cominciato il suo primo, fallito, tentativo di prendere il potere in Germania. Ma questa volta il discorso fu più breve del solito e il ‘Führer’, invece di rimanere per festeggiare con i suoi camerati, se ne andò subito per raggiungere il treno che lo avrebbe riportato a Berlino. Lì lo aspettavano problemi ben più importanti: i suoi generali si erano opposti al suo piano di cominciare l’attacco su fronte occidentale in quei giorni e il 9 novembre ci doveva essere la decisione definitiva. Per le cattive condizioni meteorologiche non era stato possibile prendere l’aereo.
Ad un tratto i due doganieri videro un persona aggirarsi nel giardino del collegio ed avvicinarsi alla frontiera svizzera. Il doganiere Joseph Reitlinger – dopo aver dato un secco altolà – si portò verso la persona, che non oppose alcuna resistenza. L’uomo, di piccola statua e vestito in modo semplice, gli mostrò un lasciapassare scaduto da quattro anni e disse di essersi perso mentre cercava un conoscente. Reitlinger lo portò alla vicina dogana, dove durante la perquisizione vennero fuori degli strani oggetti dalle tasche del fermato: pezzi di orologeria, viti, un tubo metallico e una cartolina del Bürgerbräukeller. I funzionari non dettero nessuna attenzione a quella cartolina. Solo qualche ora dopo, quando arrivò la notizia che a Monaco c’era stato un attentato contro il ‘Führer’, cominciarono a pensare a un eventuale collegamento fra questo piccolo artigiano, magro e poco appariscente, e la bomba fatta esplodere nel Bürgerbräukeller alle ore 21,30 di quella stessa sera. Il giorno dopo Elser venne portato a Monaco nella sede della Gestapo, dove il 14 novembre, dopo interminabili interrogatori, confessò l’attentato. Ma chi era questo artigiano dall’aspetto così modesto, che tutto da solo aveva tentato quello che in tanti, anche dotati di molti più mezzi, credevano impossibile, cioè di eliminare il dittatore?

Georg Elser era nato il 4 gennaio del 1903 a Hermaringen, un piccolo borgo nel sud della Germania. Era il primo di quattro bambini e fin da piccolo dovette aiutare nella piccola fattoria dei genitori. A sedici anni cominciò un apprendistato da falegname. Prima aveva già fatto un anno di tornitore, ma il lavoro non gli era piaciuto. Come falegname, Georg si sentì per tutta la sua vita come un artista nel suo mestiere. Non lavorava mai solo per soldi, ma anche per il suo bisogno di creare piccoli pezzi d’arte. Dopo l’apprendistato di tre anni trovò un posto in una fabbrica di mobili. Però con un amico si lamentò della sua condizione: era il 1923, lo stato economico della giovane Repubblica di Weimar era disastrosa, l’inflazione aumentava di giorno in giorno e il giovane si era reso conto che per tante ore di lavoro il salario era diventato un’intollerabile miseria.
Negli anni successivi cambiò spesso lavoro, lasciò anche il suo paese e andò a Costanza a cercare un’occupazione. Ma anche lì non trovò niente che potesse soddisfare veramente la sua voglia di lavorare con creatività. Inoltre la situazione economica stava precipitando di nuovo: spesso le ditte presso le quali lavorava chiudevano. In quel periodo gli giunse una lettera di sua madre, che gli chiedeva di tornare a casa dove il padre, sempre ubriaco, stava rovinando la famiglia. E Georg, ubbidiente, tornò a casa, anche se inutilmente: poco tempo dopo dovettero vendere la fattoria e il giovane falegname si allontanò di nuovo dalla famiglia.
Georg Elser ritorna nel suo paese verso la fine del 1932 . Il 30 gennaio 1933 Hitler viene nominato Cancelliere dall’oramai troppo vecchio Presidente Hindenburg. A Königsbronn, il paese di Elser cambia poco per il momento. Anche per Georg continua la vita difficile di sempre, senza grandi cambiamenti. Cambia spesso lavoro, sia perché gli vengono tolti dalla paga gli alimenti per un figlio illegittimo a Konstanz, sia perché il lavoro sta diventando sempre più automatizzato: non conta più la bravura artigianale, alla quale Georg tiene tanto, bensì la quantità. La politica non l’interessa molto, non gli piace discuterne, ma si trova bene con gente con cui divide le stesse opinioni e con la quali si intende senza troppe parole. Così già dagli anni a Konstanz si è avvicinato a gruppi politici della sinistra. Però non partecipa mai attivamente al lavoro di questi gruppi, anche perché il suo pensiero politico non è frutto di ideologia, bensì dell’osservazione della situazione sociale. Egli, al contrario degli altri tedeschi, misura le promesse dei Nazionalsocialisti con la realtà, fa i suoi calcoli e nota la notevole diminuzione del guadagno reale negli anni della dittatura. Inoltre comincia nel 1938 a sentire il rischio di un’altra guerra mondiale.

Ma quale reale possibilità esiste di cambiare il governo e di evitare una nuova guerra? Georg giunge alla conclusione che bisogna eliminare il gruppo dirigente del partito, Hitler e i suoi amici. Solo così sarà possibile fermare la follia nazista. E dal momento che prende quella decisione, lavora con tenacia all’esecuzione del suo piano incredibile di uccidere egli, un piccolo artigiano della più sperduta campagna sveva, Hitler, il grande dittatore. Per prima cosa va a Monaco ad osservare da vicino le festività dell’8 novembre 1938 nel Bürgerbräukeller e nota che non esiste una sorveglianza speciale della sala. Di ritorno a Königsbronn si accinge al difficile lavoro di progettare un ordigno a tempo da nascondere nella colonna davanti la quale Hitler di solito faceva il suo discorso. Finalmente riesce nel intento usando una sveglia. Ma l’altro grande problema, trovare l’esplosivo, è un’ impresa quasi impossibile sotto la sorveglianza del sistema totalitario. Lo risolve cercandosi un lavoro in una cava, dove tutti i giorni vengono usate grandi quantità di esplosivo. Il 5 agosto 1939 finalmente tutto è pronto. Georg parte per Monaco dove comincia il lavoro più difficile e faticoso: scavare uno spazio abbastanza grande nella colonna per sistemarci l’ordigno.

Georg Elser ci lavora per più di due mesi, notte dopo notte, nel buio quasi totale illuminato solo da una piccola torcia, in ginocchio, sempre attento a non fare troppo rumore. Ha inventato un sistema per chiudere il pannello di legno della colonna durante il giorno. Così si fa chiudere dentro ogni sera e dopo la partenza degli ultimi camerieri continua il suo incredibile lavoro solitario.
Dopo mesi di lavoro finalmente il 5 novembre pone la bomba nella colonna. Il 7 novembre, dopo una breve visita da sua sorella a Stuttgart, ritorna nel Bürgerbräukeller per controllare il giusto funzionamento del congegno ad orologeria. Convintosi che tutto funziona perfettamente parte per Konstanz per passare illegalmente la frontiera con la Svizzera, dove viene fermato dal doganiere Joseph Reitlinger che più tardi verrà promosso per quel gesto.

Quando mezz’ora dopo la bomba esplode, Hitler ha già lasciato il Bürgerbräukeller per ritornare a Berlino e con lui tutti i quadri dirigenti del partito. Muoiono otto persone fra vecchi camerati, camerieri e spettatori e Hitler comincia a parlare della provvidenza. Per quanto riguarda i mandanti dell’attentato, la propaganda parla di un complotto dei servizi segreti inglesi.
Non poteva succedere di meglio in quel momento difficile per Hitler. L’attentato e la prova che i mandanti erano inglesi poteva dargli un ottima spinta propagandistica per l’attacco alle truppe alleate schierate ad ovest. Quello che assolutamente non serviva era un attentatore tedesco, in più semplice artigiano, che aveva ideato e eseguito tutto da solo. Perciò Georg Elser viene portato a Berlino nel centro della Gestapo per ulteriori interrogatori per tirargli fuori con tutti i mezzi i nomi dei suoi mandanti. Ma Elser continua a ripetere la sua storia e siccome non cede, viene mandato in un campo di concentramento in trattamento speciale. Non gli succede niente perché Hitler ha un piano, un progetto tipico della mente malata del dittatore: vuole organizzare un processo spettacolo a Londra, dopo che le sue truppe avranno occupato la Gran Bretagna. Siccome non ci arriverà mai, Georg Elser rimarrà fino al 1944 nel campo di concentramento di Sachsenhausen, da dove sarà trasferito nel campo di Dachau, vicino a Monaco. E li verrà ucciso il 9 aprile 1945, un mese prima della fine della guerra, per ordine personale del capo della SS Heinrich Himmler.

Fu solo per poco che il piano di Georg Elser fallì, solo per una manciata di minuti l’umile artigiano non riuscì a risparmiare al mondo gli orrori e i milioni di morti legati alla dittatura nazista. Georg Elser non fu un eroe, fu solo un uomo onesto che dopo una lunga riflessione aveva deciso di agire contro la dittatura da solo, senza alcuna organizzazione dietro di sé. Per questo non ha nulla di spettacolare, niente a che vedere con gli attentatori del ’44, alti ufficiali per lo più di origine nobiliare . Ed è per questo, forse, che è stato dimenticato: non solo non appare in nessun libro scolastico, ma persino in un grande volume di più di seicento pagine sulla resistenza a Hitler, pubblicato dall’agenzia tedesca federale di formazione politica, gli vengono dedicate appena quattro righe per costatare il fatto della sua uccisione nel 1945. Tanta poca attenzione si può forse spiegare: egli fu la prova vivente che anche una persona semplice e umile poteva fare qualcosa contro il regime nazista, senza grandi mezzi o una potente organizzazione dietro di sé. Una constatazione che urta la coscienza dei troppi che videro l’orrore e non seppero far altro che girare il capo dall’altra parte.

Anette Neises

Francobollo chiudibusta commemorativo emesso nel centario della sua nascita nel 2003 Sul francobollo è riportata la frase di Elser: “Ich hab den Krieg verhindern wolle” (Ho voluto fermare la guerra)

http://www.georg-elser.de

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Il comandante Rolando ha lasciato questo mondo

Nino De Marchi “Rolando” in divisa da sottufficiale di artiglieria alpina alla vigilia dell’8 settembre 1943

Nino De Marchi “Rolando”, Cansiglio 2015

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa notte intorno all’una è mancato Nino De Marchi, classe 1920. Sottotenente di artiglieria Alpina a Belluno, con l’otto settembre decise di partecipare alla resistenza nel Vittoriese e in Cansiglio in qualità di comandante partigiano nell’Alpago con il nome “Rolando”, prima della brigata Bixio e successivamente della F.Bandierafratelli bandiera. A lungo presidente dell’Anpi di Conegliano. È stato per lungo tempo presidente del CAI Conegliano e padre di Giuliano (grande accademico caduto nell’Antelao circa 10 anni fa). Lo ricordiamo con grande stima e affetto. Le nostre più sentite condoglianze alla figlia Daniela, alla nuora e nipoti.

Questa è la prefazione di Alessandro Casellato al libro “Partigiani in montagna”, che raccoglie un intervista a “Rolando”:

Rolando aveva poco più di vent’anni quando comparve la prima volta. Faceva vita selvatica, in mezzo ai monti e ai boschi, tra l’Alpago e il Cansiglio. Ma era un cavaliere, dall’animo nobile e dai puri ideali. Andò alla guerra per combattere uno straniero invasore. Ebbe compagni coraggiosi, che amò fraternamente, e avversari tenaci, verso i quali fu magnanimo. Superò prove terribili, inseguimenti, freddo e fame. Le stelle gli furono propizie: sopravvisse alla pallottola che lo trafisse, sfuggì al tradimento di chi credeva amico. Fu aiutato da donne forti come querce, che lo protessero e lo sfamarono, e da guerrieri venuti da lontano, parlanti lingue sconosciute, che gli insegnarono canzoni dolcissime. Vinse la guerra, poi tornò a casa. Sulla via del ritorno un uomo di malaugurio gli attraversò la strada e lo mandò all’ospedale. Da allora se ne persero le tracce.
La storia di Rolando me l’ha raccontata un vecchio signore che si chiama Nino De Marchi, che in quel tempo remoto gli fu vicino, molto vicino, e che sostiene di averlo incontrato ancora, tra altre montagne, in giro per il mondo.
Nino De Marchi è nato a Conegliano nel 1920. Il nonno, Giovanni, faceva l’orologiaio. All’inizio del ’900 i suoi tre figli aprirono una piccola fabbrica di biciclette, la Columbia; dopo la guerra le affiancarono un negozio di materiale elettrico. Nel ’37 il padre di Nino, Giuseppe, si mise in proprio con un magazzino all’ingrosso, sempre di cose elettriche. Nel frattempo aveva sposato Elide, che avendo perso il padre in età giovanile, fu cresciuta come una figlia da un professore di ginnastica e calligrafia che si era fatto un nome come disegnatore di carte geografiche. Elide aveva un grande amore per la montagna, al quale educò i suoi due figli sin da piccolissimi. Giuliano, il maggiore, era del ’18; aveva la passione degli aeroplani; frequentò l’Accademia Aeronautica di Caserta, divenne pilota e morì a 24 anni, in azione di guerra, nel cielo di Malta. Nino, invece, fece i suoi studi a Conegliano, poi al “Riccati” di Treviso, e infine all’istituto Enologico di Conegliano, con l’idea di iscriversi poi alla facoltà di Agraria per diventare ispettore forestale. Come studente universitario riuscì a rinviare la chiamata alle armi fino al ’42. Poi seguì il corso allievi ufficiali presso il Reggimento di Artiglieria alpina di Merano. L’8 settembre lo colse in una caserma di Belluno. Alla stagione partigiana ha dedicato un libro di “Memorie. 1943-1945”, scritto in vecchiaia (stampato in proprio nel 2001, ristampato l’anno dopo a Vittorio Veneto dal locale Istituto per la storia della Resistenza).
Dopo la guerra Nino si dedicherà allo studio, concludendo l’università, al lavoro, prendendo in mano l’azienda paterna, e alla famiglia. Della sua giovinezza avventurosa gli rimarrà il gusto di arrampicare; alle sue care montagne dedicherà un altro piccolo libro di fotografie e ricordi (stampato in proprio nel 2006). Oggi ha 86 anni(nel 2007 n.d.r.), vive da solo in una bella casa a Conegliano, circondata da una vigna e piena di vecchie cose. E’ da sempre iscritto all’Anpi, e orafa anche parte del Comitato direttivo dell’stituto per la storia della Resistenza di Treviso.

Nino De Marchi “Rolando” non voleva sentir parlare di “guerra civile” (e aveva pienamente ragione)

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“El Quico” Sabate e los “Bandoleros”, la guerriglia urbana libertaria in Spagna, 1945-1963

“El Quico” Francisco Sabate

La guerra civile spagnola non terminò il 1° aprile 1939. Vincitori e vinti erano almeno d’accordo su questo. Soltanto una propaganda ideologica intensa che si appoggiava su tutti i mezzi di comunicazione, cercando di mascherare la realtà, poteva imporre come un’evidenza una pace sociale che non esisteva affatto. Quando il regime franchista tappezzava le strade di manifesti proclamanti “25 anni di pace”, non erano in realtà passati che pochi mesi dalla caduta degli ultimi guerriglieri che avevano iniziato la lotta contro il franchismo nel 1936. Partendo da qui, è possibile dire che la guerriglia, rurale o urbana, dal 1939, non ha mai smesso di esistere in Spagna. Ricordiamo a proposito le lotte dei gruppi armati della Confederazione nazionale e le azioni del “Grupo Primero de Mayo” negli anni sessanta. Così come le lotte del MIL e del GARI negli anni settanta.

Gli uomini che l’animavano erano definiti “bandoleros”, assassini, rapinatori e ben altri epiteti mascheranti la realtà delle loro azioni. Epiteti inventati dai giornalisti che facevano parte dell’ingranaggio franchista. L’unica informazione diffusa allora era quella della cattura o della morte di un guerrigliero, spesso in circostanze misteriose (tentativo di evasione, resistenza, suicidio durante il suo arresto…). La storia della guerriglia è difficile da ricostruire. La maggioranza dei suoi protagonisti sono morti. La maggior parte degli uomini che parteciparono alla lotta armata libertaria furono eliminati fisicamente, durante gli scontri con la polizia o furono giustiziati. Coloro che sopravvisssero sfuggono ancora alla curiosita degli storici. I due libri di Antonio Tellez dedicati alla guerriglia urbana, a Sabaté e Facerias, i personaggi più importanti di questa storia, sono le sole storie orali su quest’epoca. Questi libri sono la testimonianza di un uomo che ha condiviso la vita dei guerriglieri e che fu loro amico. Da segnalare anche una nuova biografia di Pilar Eyre, che ha il grande merito di aver raccolto narrazioni di prima mano, degli amici, dei sopravvissuti, dei membri della famiglia di Sabaté, ma anche dei suoi nemici.

Bandoleros, maquis, resistenza, guerilleros, questi termini si confondono, sono rappresentativi di una parte della storia delle lotte radicali contro il potere franchista. Cronologicamente, bisogna distinguere diversi periodi:

1939 – 1944. Piccoli gruppi armati, isolati all’interno della penisola, nelle “sierras” (in Aragona, in Andalusia, in Catalogna e in Galizia soprattutto) continuano la lotta contro i fascisti.

Settembre 1944. Alla fine della seconda guerra mondiale, un’invasione massiccia di guerilleros ha luogo nelle valli spagnole di Aran e di Roncal. Molti di loro hanno fatto parte della resistenza in Francia. L’operazione si risolve con una sconfitta, i sopravvissuti sono obbligati a fuggire attraverso la Spagna o rientrano in Francia, tra di loro vi sono numerosi feriti. Molti guerilleros furono catturati.

Primavera 1945. Sviluppo della resistenza interna segnalata in diverse province.

“El quico” Sabate

1945 – 1946. La prima informazione relativa a un’azione propriamente anarchica data al 6 agosto 1945. Quel giorno, sei individui armati attaccano una succursale del “Banco de Vizcaya” a Barcellona. È la prima di una serie di azioni attribuite agli anarchici. È durante questo periodo che molti militanti libertari furono arrestati. Jaime Parés, detto “Abisino” morì a quest’epoca, il corpo crivellato dalle pallottole della polizia. Fu uno dei primi compagni di Sabaté. Nel 1946, quando la fine del fascismo e del nazismo in Europa permetteva di credere alla fine del suo alleato il franchismo, i gruppi anarchici riapparvero. Le loro azioni avevano una finalità chiaramente propagandistica, il loro obiettivo era di riorganizzare la CNT dall’interno, fornirle dei mezzi finanziari. Durante questo periodo, molti comitati nazionali o regionali della CNT si ricostituirono per essere dissolti nel giro di qualche mese. Molti membri di questi comitati furono imprigionati ed eliminati. Il gruppo capeggiato da Marcelino Massana conta al suo interno i fratelli Francisco detto “el Quico” e José Sabaté Facerias detto “Face” e Ramon Vila detto “Caraquemada“. Questi gruppi agiscono sotto la sigla MLE e sporadicamente vengono diffusi dei volantini firmati FIJL.

1947 – 1952. Declino della resistenza dovuto all’intensa repressione e all’abbandono della lotta armata da parte di importanti settori dell’opposizione spagnola, del PCE soprattutto.

1947-1950. È a partire dal maggio del 1947, che i gruppi anarchici sviluppano la loro attività più grande. Essi controllano le strade a breve distanza da Barcellona. Nel 1948, il gruppo di Faceria porta a termine due rapine e si impadronisce di alcune migliaia di pesetas in una fabbrica a Barcellona. Durante questo periodo, Ramon Villa “Caraquemada” interviene nei dintorni di Barcellona, gli si attribuiscono in questo periodo un attacco a mano armata e il collocamento di esplosivi in una fabbrica di carburi e contro l’impianto ad alta tensione di Figols-Vic. Nel 1949, riapparivano i gruppi di azione rurale, uno di essi è diretto da Massana. Si attribuiscono loro molti attacchi a mano armata. A Barcellona, i gruppi sono raggruppati in seno al MLR. In febbraio, luglio e ottobre, diverse azioni sono condotte da costoro contro le ferrovie catalane, contro fabbriche, trasportatori di valuta e gioiellerie.

Nel 1949, “el Quico” Sabaté agisce a Barcellona. In marzo, con suo fratello José e l’aragonese Wenceslao Gîmenez Orive, decidono l’eliminazione del sinistro commissario Eduardo Quintela, specializzato nella repressione degli anarchici, nemico mortale di Sabaté. L’azione ha luogo il 2 marzo, per un imprevisto, il colpo fallisce. Manuel Pinol e José Tella, delegati agli sport del “Fronte della gioventù”, due noti fascisti vengono uccisi al posto del commissario. Il 3 giugno del 1949, Francisco Denis “Català” moriva per aver assunto una capsula di cianuro, era stato arrestato a Gironela. La maggior parte dei gruppi erano ricorsi a lui per valicare i Pirenei, “Català” era il passatore dei delegati della CNT in esilio. Questo periodo costò al movimento libertario la sparizione di 29 dei suoi membri, 11 feriti e 57 arresti.

1950-1952. Durante questo periodo, la guerriglia non conobbe che sconfitte. Essi successero agli scacchi conosciuti alla fine del 1949. Carlos Cuevas e Cecilio Galdos del comitato nazionale della FAI, morirono in scontri armati. Manuel Sabaté, il più giovane dei fratelli Sabaté venne fucilato nel campo della Bota.

1952-1955. Delle basi della resistenza armata, soprattuttto localizzate in Catalogna ed in Aragona si sviluppano, esse sono composte da anarchici che fecero parte inizialmente della CNT. In un primo tempo la guerriglia presentava un carattere unitario, ciò non impedì agli anarchici dal parteciparvi. Il secondo periodo è nettamente libertario, esso comincia quando la lotta armata è abbandonata dalla maggior parte delle organizzazioni politiche. In Catalogna, gli elementi più attivi di questi gruppi erano: Marcelino Massana, José Luis Facerias, José Manuel e Francisco Sabaté, Ramon Vila. Qualche anno prima, in Aragona, gli animatori della guerriglia avevano per nome: Rufino Carrasco e “El Tuerto de Fuencarral“. La maggior parte di questi uomini avevano combattuto durante la rivoluzione spagnola nelle milizie della CNT-FAI. Nel marzo del 1956, Sabaté stabilisce dei contatti con Facerias, essi formano un nuovo gruppo. Si attribuisce loro l’attacco del “Banco central” e la morte di un ispettore. Il 22 dicembre di quell’anno, il gruppo si impadronisce di molte migliaia di pesetas dagli uffici dell’impresa “Cubiertas y tejados”. Dopo quest’azione, Sabaté ritorna in Francia dove resterà sino al 1959.

1955-1960. È durante la primavera del 1955 che Francisco Sabaté si decise ad agire di nuovo. Dopo un contatto con la CNT di Tolosa, fu escluso definitivamente dall’organizzazione confederale. La CNT era contro l’idea di creare dei gruppi armati sul territorio spagnolo. Davanti a questo rifiuto, “el Quico” fondò con qualche compagno i “Grupos anarco-sindicalitas” il cui organo era “El Combate”. Il 29 aprile, Sabaté è a Barcellona, entra in relazione con qualche compagno e semina nella città migliaia di esemplari di “El Combate” in occasione del 1° maggio. Il 28 settembre, approfittando del soggiorno di Franco a Barcellona, Sabaté è nella città, affitta un vecchio taxi a tetto aperto e spiega all’autista che va a distribuire della propaganda favorevole al regime. Il volantino redatto in catalano e in castigliano contiene il seguente testo: “Popolo antifascista. Sono già molti anni che sopporti Franco e i suoi sicari. Non basta criticare questo regime corrotto, di miserie e di terrore. Le parole sono parole. È necessaria l’azione. Abbasso la tirannia! Viva l’unione del popolo spagnolo! Movimento libertario di Spagna!”.

È durante questo periodo che sarà ucciso José Luis Facerias, vittima di un’imboscata tesa dalla polizia nel quartiere barcellonese di Verdún, il 30 agosto 1957. L’annuncio della sua morte, nei giornali spagnoli comporta alcune curiosità: José Luis Facerias godeva di una molto triste fama, essa fu il frutto dei suoi numerosi crimini. Univa allo stesso tempo una straordinaria abilità e una mancanza assoluta di scrupoli che lo spingevano a degli estremi di una ferocia inimmaginabile che egli pretendeva di giustificare per la sua condizione di difensore di una causa politica di cui era il perfetto rappresentante. Facerias morì all’età di 37 anni.

La fine di quest’epoca avrà luogo il 5 gennaio 1960 con l’ultima avventura del Quico. Sabaté riuscì a costituire un nuovo gruppo. Era formato da Antonio Miracle Guittard, 29 anni, Rogelio Madrigal Torres, 27 anni e Martin Ruiz Montoya, 20 anni. Senza alcun sostegno, essi adottano il nome di MURLE. L’ultimo a unirsi al gruppo sarà Francisco Conesa Alcaraz, 38 anni. I cinque decidono di recarsi in Spagna ad organizzare un nucleo di carattere politico-militare che deve diventare l’embrione di future unità armate. Essi attraversano la frontiera il 30 dicembre. Quello stesso giorno, la guardia civile è allertata e si concentra nella zona di passaggio. Il 3 gennaio, il gruppo è localizzato in una fattoria nel sud di Girona. Accerchiati dalla guardia civile, il gruppo non ha che una scelta: lo scontro. Conesa è ucciso, Sabaté ferito a una gamba. Nel momento in cui tentano di fuggire grazie all’oscurità, Miracle, Madrigal e Martin sono uccisi. Sabaté, dopo aver ucciso il tenente della guardia civile, si dirige verso la triplice cerchia di guardie che circondano la fattoria, ventre a terra sussurra: Non sparate, sono il tenente e così riesce a dileguarsi nella notte. Sabaté riesce a giungere sino alla ferrovia, vicino a Fornells. Sale sulla locomotiva di un treno e minaccia il macchimista e il meccanico con la sua arma e ordina loro di dirigersi verso Barcellona senza fermarsi a nessuna stazione. Arrivati a Empalme, Sabaté si impadronisce di una locomotiva elettrica, sempre in compagnia del macchinista e del meccanico. Nel frattempo la sua ferita si aggrava. Prima di arrivare a Sant Celoni, salta dal treno e raggiunge una fattoria vicina. È lì che sarà individuato dalla guardia civile. Una guardia municipale messa al corrente della cosa dalle guardie civili si trova sul luogo dello scontro. È questo ufficiale che ucciderà Sabaté con il concorso di un sergente della guardia civile. Sabaté era ferito al piede e alla coscia. Il giorno dopo, la stampa spagnola scriveva: “Fine di un bandolero. Erano le otto e ventisei minuti. All’incrocio delle strade Mator e San Tecla a Sant Celoni, stringendo la sua mitraglietta Thompson, giaceva morto il tristemente celebre Francisco Sabaté Llopart”.

Senza saperlo, l’informatore ufficiale rese a Quico un ultimo omaggio trattandolo come un “bandolero”. Il che vuol dire in Spagna “bandito di strada”, ma anche in un senso più ampio: il campione degli oppressi. Sabaté aveva 45 anni. “Caraquemada” restava il solo sopravissuto di questa generazione di guerriglieri. È nella sua terra di Berguedà che egli condusse la maggior parte delle sue azioni. Fu nel 1963, a quasi trent’anni, a Castellnou de Bages che egli trovò la morte in una pattuglia della guardia civile, Tentò in quel momento di porre un esplosivo contro un’installazione elettrica.

La guerriglia urbana ed i suoi obiettivi

Le azioni condotte dai gruppi armati erano di una temerarietà senza limiti. I gruppi sapevano che per il fatto che tutte le organizzazioni ufficiali avevano abbandonato la strategia armata rendeva più difficile il loro radicamento nel popolo, ma speravano di poter dimostrare a queste organizzazioni i loro errori. La loro attività di diffusione di testi anarco-sindacalisti rimase limitata alla Catalogna. La principale difficoltà per i gruppi d’azione fu la relazione precaria stabilita con i gruppi dell’interno della penisola. I gruppi d’azione continuavano la guerra civile, per essi non era mai cessata. La maggioranza degli oppositori dell’interno, a partire dal 1953, considerava che la lotta contro il franchismo doveva svilupparsi con i mezzi di una partecipazione la più ampia possibile della popolazione. È da notare che fu a partire del momento in cui gli Stati Uniti stabilirono delle relazioni diplomatiche con la Spagna che queste posizioni si manifestarono nell’opposizione anti-franchista. principale nemico della lotta armata fu quindi la guardia civile. Il numero di guardie utilizzate per farla finita con i guerriglieri fu impressionante. Infiltrandosi negli ambienti dell’esilio, le guardie potevano informare sulla partenza dei gruppi verso la Spagna. La collaborazione della polizia francese fu egualmente molto importante. Se inizialmente, il governo francese lasciò i gruppi di guerriglieri organizzarsi sul territorio francese, indubbiamente per via della loro partecipazione attiva alla resistenza contro il nazismo, l’inizio della guerra fredda trasformò le relazioni diplomatiche tra la Francia e la Spagna. La collaborazione tra la polizia francese e spagnola si sviluppò, l’informazione riguardante il passaggio dei gruppi d’azione attraverso i Pirenei era trasmessa dalla polizia francese ai loro omologhi spagnoli.

La guardia civile, per lottare più efficacemente contro i guerriglieri, creò dei corpi anti-guerriglia. I corpi della guardia civica realizzarono diverse azioni che screditarono la guerriglia, ciò creò nella popolazione un clima di insicurezza che provocò l’isolamento dei guerriglieri anarchici. Le zone di passaggio, le uscite da Barcellona furono sempre più sorvegliate, delle pattuglie formate da numerosi uomini armati formarono intorno a Barcellona un cerchio di repressione che non permetteva più ai guerriglieri di raggiungere le loro basi, lo spostamento di materiale e ricevere rinforzi in uomini. I guerriglieri ebbero anche dei nemici importanti nella persona dei volontari, della polizia nazionale, delle guardie municipali, dei falangisti e delle loro organizzazioni. Eppure la guerriglia tenne in scacco per moltissimo tempo le forze governative. La precarietà dei loro mezzi che li obbligava a praticare delle espropriazioni, il fatto di non poter contare sulla loro organizzazione, la CNT dell’esilio per la quale essi lottarono da ben prima del 1936, li resero vulnerabili. Numerose azioni condotte dai gruppi d’azione rimarranno probabilmente sconosciute per sempre, ma ciò che è certo è che il regime di terrore imposto da Franco aveva un nemico opposto direttamente ad esso.

Quando la notizia della morte del “Quico” Sabaté giunse a Barcellona, le persone si rifiutarono di ammettere la realtà di questa scomparsa. “El Quico tornerà presto a smentire questi bugiardi” commentavano i lavoratori catalani pensando a una montatura della polizia. È certo che quando Sabaté e Facerias entrarono nel mito popolare ciò provò che in un certo modo essi erano rappresentativi dell’opposizione per un gran numero di Spagnoli a un potere che voleva sottomettere l’insieme del popolo spagnolo. Il bandolero è sempre stato mistificato in Spagna, perché incarna la lotta del debole e dell’oppresso contro il potere stabilito. È definito dall’immaginazione popolare come il ladro dei ricchi ed il difensore dei poveri. Fu il caso di Sabaté, quello di Facerias e dei loro compagni. Essi furono la personificazione del bandolero nobile che lotta sino alla morte per la libertà e contro coloro che si oppongono ad essa.

“Proseguiamo e proseguiremo la nostra lotta in rapporto alla Spagna, in Spagna, consideriamo che l’inerzia sia la morte dello spirito rivoluzionario. Faremo sì che la voce dell’anarchismo si faccia sentire in tutti gli angoli della Spagna così come la solidarietà con i nostri fratelli detenuti”.

Questo testo datato 8 dicembre 1957, fa parte di una lettera indirizzata dai “Grupos anarco-sindicalistas” alla CNT e alla FAI in esilio, per protestare contro l’inazione di quelle organizzazioni per salvare gli anarchici imprigionati in Spagna e per denunciare la loro assenza sul terreno delle lotte nella penisola.

Daniel Pinós, da http://latradizionelibertaria.over-blog.it/

http://losdelasierra.info/

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Quando la bandiera rossa sventolò su Montecitorio

Era il primo Maggio 1924, Mussolini aveva appena soppresso la Festa dei lavoratori, quando Guido Picelli riuscì a mettere sul pennone del Parlamento la bandiera rossa. All’eroe delle barricate di Parma, al Che Guevara italiano, nell’ottantesimo anniversario della sua scomparsa RaiStoria dedica la serata del 3 gennaio (ore 22.30) col film di Giancarlo Bocchi, “Il ribelle, Guido Picelli un eroe scomodo”.

Un’immagine tra tante per ricordare un grande rimosso della storia del nostro antifascismo. La bandiera rossa alzata sul pennone di Montecitorio il primo maggio 1924, proprio all’indomani della soppressione della festa dei lavoratori da parte di Mussolini e un mese prima dell’omicidio di Matteotti.
Un gesto simbolico e dirompente che dice tanto di Guido Picelli, eroico comandante delle barricate di Parma, inventore della guerriglia urbana, deputato comunista indipendente, nato nel 1889 e morto sul fronte spagnolo nel ‘37, colpito al cuore da un proiettile sparatogli alle spalle, in circostanze ancora oggi non chiarite.
È proprio in quella morte, infatti, che si spiega tutto il «rimosso» messo in atto nei confronti di questo Che Guevara italiano, «ardito del popolo», politico scomodo, votato da sempre alla «causa del proletariato», come si diceva allora, che pagò con la vita il suo idealismo libertario e lungimirante che lo portò rapidamente in rotta di collisione con lo stalinismo. Partì da Mosca l’ordine di eliminarlo, alla vigila di una nuova vittoria sul fronte di Madrid del Battaglione Garibaldi che Picelli comandava?
Ne è sicuro Giancarlo Bocchi, regista parmense che alla figura del comandante ha dedicato quasi quattro anni di ricerche negli archivi di mezzo mondo (dalla Russia agli Usa), scoprendo nuovi documenti e prezioso materiale di repertorio, diventati materia incandescente per un film (con libro): Il ribelle, Guido Picelli un eroe scomodo, appassionato documentario del 2011 che ha raccolto riconoscimenti e inviti a festival internazionali e che il 3 gennaio (ore 22.30) andrà in onda su RaiStoria in occasione dell’ottantesimo anniversario della morte di Picelli.
Attraverso le parole dello stesso comandante, pronunciate da Francesco Pannofino, e il raccordo narrativo «letto» da Valerio Mastandrea, Il ribelle è davvero un’avvincente cavalcata nell’avventura umana e politica di un grande protagonista della storia italiana ed europea del secolo scorso.
A cominciare dalle lotte sociali e il grande sciopero del 1908, per passare al Primo conflitto mondiale al quale Picelli, da non interventista, partecipa al seguito della Croce rossa. Splendidi i filmati tra le trincee tra cui uno spezzone inedito su Caporetto. Le «scoperte» si susseguono. Come l’esperienza d’attore vissuta dal giovanissimo Picelli che lascia Parma per Torino scegliendo la strada del cinema, appena nato. Eccolo al fianco del grande Ermete Zacconi in un film muto.
Ma il drammatico scenario politico lo riporta in breve nella sua città. Siamo nel ‘22 alla vigilia della Marcia su Roma. Picelli alla testa di 400 Arditi del Popolo, tra cui comunisti, cattolici, socialisti e anarchici, riesce a mettere in fuga i diecimila fascisti di Italo Balbo, durante i cinque giorni della Battaglia di Parma.
Quella storica le cui immagini hanno affiancato per anni la testata del quotidiano Lotta Continua. «È la dimostrazione dice il comandante che il fascismo si sarebbe potuto fermare». Proprio grazie all’idea di quel «Fronte popolare» che Picelli sostiene con lungimiranza, molti anni prima del Comintern.
Stimato da Gramsci e responsabile per il Pci della creazione di una struttura insurrezionale contro il fascismo, Picelli sfugge ad agguati ed attentati delle camicie nere, quando nel ‘26 è arrestato insieme ai maggiori esponenti dell’antifascismo. Gramsci compreso. Per il comandante sono cinque anni di confino e carcere.
Negli anni Trenta viaggia tra la Francia e il Belgio, proseguendo la sua attività rivoluzionaria, soprattutto tra i lavoratori italiani emigrati. È nel ‘32 che approda in Urss ed è questo il momento della sua totale disillusione. Relegato in fabbrica a fare l’operaio Guido Picelli è completamente emarginato dall’attività politica. Inutili le sue lettere al compagno Ercoli (Togliatti). La risposta è sempre «niet».
Anzi, in pieno periodo di «purghe» Picelli è processato in fabbrica e rischia il gulag. Il suo ardore da combattente, però, non viene piegato: riesce a lasciare l’Urss, approdare di nuovo a Parigi dove prende contatti col Poum, il partito comunista spagnolo, trozkista e antistalinista di Andrés Nin.
La guerra di Spagna, dunque è l’occasione per tornare a combattere il fascismo. Al comando del Battaglione Garibaldi delle Brigate internazionali Picelli ottiene la prima vittoria repubblicana sul fronte di Madrid. Gli emissari di Stalin, però, continuano a tenerlo sotto controllo. E lui lo sa bene. Fino a quel 5 gennaio del ‘37 quando il colpo sparatogli alle spalle lo colpisce al cuore.
La ricostruzione fornita da Il ribelle suggerisce che sia stata un’esecuzione ordinata da Mosca. Fatto sta che il corpo di Picelli resta lì per un giorno. E le tesi ufficiali sulla sua morte si avvicendano, lacunose, nel tempo. Prima una raffica di mitragliatrice, poi il colpo di un «cecchino fascista». A dare l’ultimo colpo di spugna alla memoria del comandante è il divieto di Mosca di concedergli la medaglia dell’Ordine di Lenin, la massima onorificenza sovietica.

Gabriella Gallozzi, http://www.bookciakmagazine.it/

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Guerra di Liberazione, e basta!

Come ricorda in questo video il Partigiano Nino De Marchi “Rolando” classe 1920, della Divisione Garibaldi “Nino Nannetti”, non c’è stata una guerra civile nei 20 mesi da settembre ’43 ad aprile ’45. Ce lo ricordava anche il Partigiano “Furia” Gianni Giannoccolo nel suo libro “Resistenza: guerra civile o guerra giusta?”. Questo è un brano tratto dal suo libro:

È dimostrato, dati e cifre alla mano, che la Rsi non disponeva di un esercito e, conseguentemente, tutti i militari fascisti, comunque organizzati, dipendevano necessariamente dai comandi germanici. Addirittura, in frequenti casi, non solo avevano un rapporto di dipendenza funzionale, ma giuravano fedeltà al Fuhrer, vale a dire al capo di uno Stato straniero, per giunta nemico dell’Italia, come era stata considerata la Germania dal nostro legittimo governo. E indubbio che, in tali condizioni, i militari italiani, aggregati alle SS germaniche, alla Wehrmacht o ai Gruppi franchi operavano alle dipendenze dei vari Wolff, Toussaint e Kesserling e, in base all’ art. 58 del Codice militare di guerra, aiutarono il nemico nei suoi disegni politici, che certamente non erano quelli dell’Italia, che si vide occupata, mutilata, oppressa e sfruttata anche materialmente. In questo quadro, non ha senso concepire che vi sia stata una guerra civile. Tanto è vero che questa massa di militari nazifascisti alla fine del conflitto (…) furono tutti messi in cattivita come prigionieri di guerra. Erano renitenti, disertori, delinquenti comuni, che si erano aggregati alle forze naziste, considerati come feccia dal Generale Guido Manardi, che li comandava. Tutti costoro avevano bisogno, dall’armamento al munizionamento, dalla vestizione al vettovagliamento, del sostegno tedesco come dell’aria che respiravano. E senza questo continuo e indispensabile aiuto, ce ne dà conferma lo stesso Claudio Pavone, Salò non avrebbe potuto durare un solo giorno. Pavone, con questa saggia constatazione ha contraddetto tutta la sua teoria sull’esistenza di una guerra civile. Quando una moltitudine di militari, inquadrati in vari tipi di formazioni, combattono sotto un unico comando, per il raggiungimento di obiettivi politici e strategici di un paese straniero, essi partecipano ad una guerra di aggressione, che non può essere configurata come guerra civile. La Repubblica di Salò, abbarbicata ad una potenza straniera, invisa al popolo italiano, mancava di quel minimo di autonomia per potere essere in grado di contrastare, con le sue sole forze, il movimento della Resistenza, che si reggeva grazie ai suoi profondi legami con tutti gli strati della popolazione. Pensare all’esistenza di una guerra civile equivale a voler dare dignità a quella feccia della società che si era messa al servizio degli occupanti nazisti, senza i quali, come forse è involontariamente sfuggito a Claudio Pavone, non avrebbero potuto reggersi nemmeno per ventiquattro ore.

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Rue de Maquisards

Avrò avuto tredici anni, quando sentii per la prima volta “The Partisan” di Leonard Cohen. E fu per caso, perché ero andato nel negozio di dischi per comprare “Suzanne”, che avevo sentito per radio, e che poi un amico avrebbe di nuovo e meravigliosamente cantato in italiano.
C’erano i “quarantacinque giri”, allora, e il “lato B” di “Suzanne” era appunto “The Partisan”. Non sapevo, e l’avrei scoperto molti anni dopo, che il testo era di un cugino francese, il partigiano Bernard. Ma quanto mi impressionarono alcune frasi di quelle canzoni… ricordo un confuso trasloco, a metà anni sessanta, da quella che era stata la casa di mia nonna. Dai bauli, e da nicchie sotto i bauli, erano ancora uscite vecchie giacche color kaki, e pacchi che mio padre e suo fratello avevano fatto sparire in fretta.
Da neanche vent’anni “era finita”: ma non è finita ancora adesso, la Resistenza.
So che sarò un po’ retorico, da storico mi piacerebbe ogni tanto parlare di storia, e invece mi ritrovo spesso a parlare delle “mie storie”, ma mi sembra che sia il caso, perché molti dei partigiani di allora, “dopo” sono stati un po’ troppo zitti, e adesso se ne stanno andando, uno dopo l’altro, ed è bene che figli e nipoti “che sanno” parlino loro, ed è forse il sentimento di questo dovere che mi spinge. La guerra non è mai davvero finita, mes amis. Ricordo bene i primi anni settanta, ah sì, gli “anni di piombo”, ed il mio stupore misto a rabbia nel vedere i più giovani di quanti erano stati partigiani (nella mia famiglia, le classi dal 1923 al 1927), giovani uomini che nei primi anni settanta avevano poco più di quarant’anni, che non facevano nulla, nulla per fronteggiare il mondo terribile e ingiusto che ci si parava di fronte. Credo sia stato per questo che abbiamo amato il Che: io avevo dodici anni quando fu ucciso, e ricordo la notizia bruciare come una ferita e insieme un incitamento alla lotta (l’ho detto che sarei stato forse un po’ retorico, et voilà…) “Mil voces de combate…”: Guevara era il partigiano che non si era arreso, neanche di fronte ad un comodo posto da ministro. Sulle montagne, ancora una volta…
Ricordo uno slogan un po’ barricadero e un po’ ingenuo, ad uno dei “miei” primi cortei, “compagni partigiani prendiamo il fucile, facciamo di nuovo il venticinque aprile”.
Già, bastasse un fucile, adesso: non era stato sufficiente neppure “allora”, difatti ci si è liberati dai fanfaroni in camicia nera, dai saluti romani (beh, quelli si continuano a vedere, eh sì…), ma “lo Stato”? Che successe allo Stato fascista?
È rimasto lì dov’era, con il beneplacito del P.C.I. d’allora, che barattò la sua compartecipazione al potere, le regioni “rosse” con l’acquiescenza. Si fanno delle bellissime statistiche, in Italia: andate a vedere quanti ufficiali, già in servizio sotto il ventennio e sotto la R.S.I., sono stati allontanati dopo il 1945, e vedrete che non potrete organizzarci neppure un incontro di calcio.
E quanti magistrati sono stati, se non giudicati a loro volta, almeno allontanati dall’ufficio? Neanche uno. E i vili, vilissimi docenti universitari che avevano giurato fedeltà al regime (su circa tremilacinquecento professori, solo tre si rifiutarono!)? Rimasero lì, al loro posto. Come i vili, vilissimi professori di liceo, come gli infami maestri e maestre elementari.
Così come tutti i settori della pubblica amministrazione, che di fatto è rimasta fascistissima fino a poco tempo fa (intendo proprio con le stesse persone, negli stessi posti, abbiamo dovuto subire persino la vergogna di un Mirko Tremaglia ministro…). Alla faccia nostra, ma soprattutto alla faccia della “Repubblica nata dalla Resistenza”, i camerati della deputata Alessandra Mussolini le riservarono, quando giunse in Parlamento, lo stesso posto che fu del nonno Benito quando venne eletto deputato.
E tutto questo continua a succedere, tra i velluti e gli ori del fascistissimo parlamento di Roma. E già, facciamo di nuovo il venticinque aprile, ma questa volta sul serio, per favore.
Chi c’era sa che cos’è stato riprendersi Venaus, l’otto dicembre 2005. Nevicava un po’, e nell’aria fredda io ero ad una curva sopra la strada del paese, e i movimenti delle forze in campo sembravano un enorme “risiko”, dal vero però. Blu la polizia, colorata la gente, neri come sempre i carabinieri, e poi fumogeni di tutti i colori e il bianco della neve.
L’otto dicembre di sessantadue anni prima, alla Garda, dall’altra parte della valle, giurava la prima banda partigiana. Due giorni prima, a Torino, avevamo occupato i binari di Porta Nuova, mentre l’intera valle di Susa era bloccata e presidiata, non si entrava e non si usciva, se non su sentieri non segnati sulle carte di chi comanda.
Tutta la forza pubblica inviata in Val di Susa, la più grande mobilitazione militare contro i civili in Europa che mai si fosse vista: quasi quasi potremmo prenderci il Municipio, e buttar fuori l’inutile Chiamparino, pensò qualcuno tra di noi. Insurrezione, un sogno che diventava reale. Non è successo, ma non era male il consiglio di Errico Malatesta: “alla prima sommossa dar giù, senza perdita di tempo”.
E se l’avessimo fatto di nuovo, davvero, il venticinque aprile? Ho avuto la fortuna di conoscere chi diede, allora, alla radio clandestina, il segnale dell’insurrezione: “Aldo dice ventisei per uno”, e i comandanti di brigata, anche i ventenni che come mio padre, con quasi nessuna esperienza militare, si erano trovati con cinquanta, cento uomini di fronte ad uno dei più forti eserciti del tempo, sapevano che il giorno dopo sarebbero scesi in quelle “belle città” che erano state lasciate per troppo tempo al nemico. “Dar giù, senza perdita di tempo”.
Già, la festa d’aprile.
C’è un paese, vicino a casa mia, oltre la montagna, un paese che si chiama Bessans, che fu incendiato dai tedeschi il 13 settembre 1944. C’erano un po’ troppi partigiani, da quelle parti, e così fuoco alle case, alè! Ma quanti si erano dati alla macchia ci rimasero, case o non case.
Maquisards. È una parola che mi piace più che partigiani, ebbene sì. C’è una strada dedicata a loro, a Bessans. Rue des Maquisards.
Forse è solo il nome di una via, come qualche “Viale dei Partigiani” dell’italietta senza memoria che nella sua toponomastica balorda celebra alla rinfusa vittime e assassini (ahi, quante via Umberto I, via Bava…).
Ma sì; forse è solo il nome di una strada, o forse no: Mi piace pensare che sia lì ad indicare davvero una strada che bisognerebbe avere la testardaggine d’imboccare contro un mondo che vuol convincerci che va tutto bene (…quando va bene) o che abbiamo già perso (…quando va male). Neve sul neroblu cattivo di un confuso gruppo di elmetti e manganelli, quell’otto dicembre 2005. È con un atto di forza che ci siamo ripresi Venaus, hanno avuto paura perché lì mica era Genova, per terra ci sarebbero rimasti loro, e lo sapevano. Giù da quei sentieri che scendevano dalla montagna ci erano passati, nei tempi, boscaioli, contrabbandieri e partigiani.
Quel giorno i partigiani erano tornati.
Bella strada, la Rue des Maquisards.

Jacou, Maquis du Mont Cenis

da Nunatak N.8 2007 – Rivista di storie, culture, lotte della montagna

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Prospero Gallinari: Un contadino nella metropoli, ricordi di un militante delle Brigate Rosse

La prefazione di Erri De Luca:

Caro Prospero, ho letto volentieri la tua storia perché tu sei una persona da ascoltare. Un libro è bello per questo, perché c’è un racconto che nessuno interrompe. L’ho seguito di filato nel volo che mi portava a Madrid e l’ho finito poco dopo. Tutti e due per aria, nel Mediterraneo, stavamo nel posto giusto, staccati da terra. Ho riconosciuto la tua voce, la tua consistenza e anche le incertezze di tanti cambiamenti. Malgrado il tuo continuo richiamo a una ragione politica, credo che le tue scelte siano dipese da una tua rettitudine, da una misura che ha per unità di peso il palmo di una mano. Ho apprezzato la tua reticenza verso i dettagli, il tuo modo di nominare le persone, la sofferenza procurata dal comportamento di molti compagni per te fidati. Dal punto di vista storico è un documento, l’ho consultato con interesse, specie il tempo degli anni ottanta, voi nel circuito dei camosci e io a piegare la schiena in fabbrica, in cantieri nella clausura ostinata e ostile verso chiunque. Me la sono ammansita con la scrittura, l’ho messa a contrappeso. Tu l’hai smaltita nella spezzettata comunità delle prigioni, nelle discussioni, nei documenti politici, ultime voci degli ammutoliti. Oggi accetti la solitudine, scrivi la tua storia che, per quanto sia stata saldata a una comunità, resta inconfondibile e tua. Oggi la tua volontà di scriverla chiude un tempo della tua vita. Una filastrocca dell’appennino emiliano racconta che la vita di un uomo è lunga quanto la vita di tre cavalli. Con questo libro hai sepolto il tuo secondo cavallo. Io il mio secondo l’ho lasciato a Belgrado nel ’99 sotto il ferro e fuoco della Nato. I nostri cavalli muoiono in fondo a un atto di solitudine. La tua volontà di scrittura è questo distacco. Non è un libro politico, caro Prospero, è un libro di un padre che non ha avuto figli. In questo siamo uguali. E dopo averlo letto, provo per te più affetto di prima.
Erri De Luca, gennaio 2005

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Viaggio in Germania nel paradiso degli econazisti

Koppelow (Germania). Nessuno è benvenuto, nel regno degli econazisti. Dimenticate gli skinhead col bomber o gli hooligan con le svastiche tatuate sul petto. Siamo a Koppelow, nell’idilliaca “Svizzera del Meclemburgo”, nel laboratorio di un esperimento che fa paura. Qui i nazisti fondarono nel 1926 il movimento degli artamani, dei “protettori della zolla”. L’obiettivo era creare un’élite in piena campagna, isolarsi dalla liberale Repubblica di Weimar rendendosi autosufficienti, costruire un’élite völkisch, germanica e antisemita, cacciare i lavoratori polacchi. Prepararsi al Terzo Reich. Ne facevano parte gerarchi delle SS del calibro di Heinrich Himmler o il futuro comandante di Auschwitz Rudolf Höss.
Vent’anni fa, gli artamani sono tornati. Con ambizioni simili. Allora Huwald Fröhlich, tagliaboschi e produttore bio, scrisse varie lettere su riviste di estrema destra come Opposition für Deutschland, invitando i camerati a raggiungerlo nel luogo simbolo dell’avanguardia bruna. Con lui arrivarono il fabbro Jan Krauter, che vende coltelli e rune di ferro, e la rilegatrice Irmgard, sul cui sito web campeggia il Signore degli anelli di Tolkien, mito intramontabile dell’estrema destra.
«C’è nessuno?». Ci incamminiamo verso uno strano camper di legno, accanto all’ingresso. È curioso, sembra piombato qui da un altro secolo. Una gallina sbuca da dietro una ruota, ci guarda perplessa. All’improvviso un uomo vestito di nero esce correndo dalla fattoria. «Che volete?» urla. Ci presentiamo, gli chiediamo se conosce il suo vicino di casa, Huwald Fröhlich. E se conosce i neo-artamani. Abbiamo cercato di bussare anche da Fröhlich, inutilmente. L’uomo scopre i denti con un ghigno: «Leggende. Il mio vicino è un tranquillo boscaiolo. I neo-artamani non esistono». Poi si avvicina: «Ora basta, andatevene».
Niente teste rasate, da queste parti: hanno i capelli lunghi. Niente bronci: sui siti web sorridono gentili. E i vestiti hanno un’aria antica: lana grezza, cuoio. Bussiamo alla fattoria del fabbro Krauter, noto alla polizia per il passato da militante neonazista, a un paio di chilometri da quella di Fröhlich. All’ingresso balle di fieno e un cartello: “Vero miele tedesco”. Entrando scorgiamo il simbolo inequivocabile della nuova avanguardia hitleriana: l’Irminsul, una sorta di colonna alata, un simbolo germanico e pagano che gli artamani e gli econazi mettono all’ingresso delle loro case per riconoscersi a vicenda. Meno spettacolare delle rune o delle svastiche, più in sintonia con il loro culto della segretezza.
Dalla metà degli anni 90 sono almeno venti le famiglie che si sono trasferite nel triangolo Koppelow-Krakow am See-Klaber, su invito di Fröhlich. Con loro ci sono sessanta bambini che vivono in un ambiente soffocante e isolato, educati secondo i precetti del nazionalsocialismo. E Koppelow somiglia a decine di altri posti sperduti nelle campagne della Germania, in Meclemburgo ma anche in Nordreno-Westfalia, Sassonia o nel Baden-Württemberg. Ovunque si sta diffondendo nella quasi indifferenza generale una società parallela, sovversiva, che punta, per dirla con il neonazista Ralph Tegethoff, all’avvento della «libera nazione tedesca del popolo».
Ormai sono migliaia i “colonizzatori” in tutto il Paese. I servizi segreti sono continuamente costretti ad aggiornare al rialzo il numero delle proprietà che comprano, dei villaggi che conquistano. Che purificano, per usare il loro gergo. Le famiglie degli insediamenti völkisch ragionano in termini di generazioni, non di mesi o anni. «La loro strategia è andare in luoghi dove devono temere poca resistenza, dove possono rendersi invisibili, dove possono comprare case, fattorie vicine. Da lì», ed è questo l’aspetto pericoloso, «cominciano a costruire colonie chiuse e a fare proselitismo tra i vicini. Detesto usare termini militari, ma posti come Koppelow sono le loro teste di ponte, le loro basi». Elisabeth Siebert, politologa della Evangelische Akademie der Nordkirche, è una pioniera degli studi sugli insediamenti neonazisti nel Meclemburgo. «Dieci anni fa, quando ho cominciato, nessuno mi credeva». Quando la incontriamo, appena fuori da Rostock, ci chiede di non fare foto: «Ricevo già abbastanza minacce».
Collegati quasi sempre con i neonazi vecchia maniera, i völkischen si considerano un’aristocrazia, e hanno modi di fare opposti. Al lavoro sporco pensano i camerati “classici”, col solito repertorio barbarico di minacce, assalti a migranti, omosessuali o autonomi, teppismi. Nelle colonie nazi invece la parola d’ordine è rendersi autonomi dallo Stato e crescere i figli alla rivoluzione, ma dissimulando. Rimanendo possibilmente fuori dal radar dei servizi segreti. «Sanno come muoversi» spiega Siebert, «partecipano alla vita dei villaggi», organizzano feste per bambini, campeggi, punti di consulenza per i disoccupati. «E tra un’attività e un’altra fanno cadere una battuta sui profughi “invasori”, raccontano una barzelletta sugli ebrei o sugli omosessuali. Tastano il terreno. Sono missionari del nazionalsocialismo e agiscono con enorme prudenza» puntualizza Siebert. Sono gli insospettabili nazi della porta accanto.
I bambini sono cruciali, ovviamente, per la strategia sovversiva dei völkischen. Sono le vittime principali, tragiche, di questo cancro che si sta mangiando la campagna tedesca. Vivono isolati: le bambine cresciute per diventare delle impeccabili madri nazionalsocialiste, i bambini uomini-guerrieri. «Se chiedi ad uno di questi bambini cosa vuol fare da grande» racconta Siebert «ti risponde: “Farò ciò che servirà al mio popolo”. Ogni impulso a sviluppare una personalità autonoma è brutalmente represso. L’individuo non conta nulla, conta solo il popolo». L’associazione di cui fa parte Siebert cerca di aiutare le scuole a difendersi dalla violenza psicologica delle famiglie neonazi: «Tendono a iscrivere i figli tutti insieme e in scuole possibilmente steineriane o evangeliche, insomma private, dove i genitori hanno molta più influenza sui programmi e sulle attività scolastiche». Dove sono tra di loro, il più possibile.
Andrea Röpke è una delle maggiori esperte dei figli dei colonizzatori e dei neonazisti. Giornalista e scrittrice, è perseguitata da anni, e nel 2006 fu picchiata violentemente per aver voluto filmare un ritrovo di un’organizzazione giovanile di estremisti. «Questi bambini» ci spiega «crescono in un mondo estremamente reazionario e autoritario. Non possono indossare jeans, il computer è vietato, devono usare solo termini tedeschi, gli anglismi sono proibiti e le bambine diventano molto presto iper-addomesticate. I maschi, invece, si fanno notare per comportamenti molto aggressivi». Nei casi più estremi «i genitori li costringono a citare Mein Kampf e a girare con vestiti antichi, le bambine con gonne lunghe e lunghe trecce». E non è tutto.
Da decenni le campagne tedesche sono infestate anche da campeggi e da colonie dove i neonazisti mandano i loro figli a prepararsi per la guerra civile. Letteralmente. Röpke li documenta da anni: le autorità tedesche ne vietano una dopo l’altra, ma rispuntano come teste di Idra ogni volta che se ne sopprime una. Ci sono state la Gioventù vichinga, la Gioventù fedele alla patria e simili. Non muoiono mai. Organizzano marce, gare, prove di coraggio con coltelli, esercitazioni con fucili ed altre armi, ma anche riti germanici, feste pagane e pellegrinaggi alle tombe di vecchi nazisti come Ernst Otto Remer, il gerarca che fece giustiziare i putschisti attorno a von Stauffenberg che tentarono di ammazzare Hitler nel 1944. Ci sono anche incontri con discendenti delle Waffen-SS. L’obiettivo è uno solo, ha raccontato anni fa la neonazista pentita Tanja Privenau: «essere pronti per il momento della presa del potere». Ci credono ciecamente. E Röpke sostiene che sono «diverse migliaia» i bambini che continuano a partecipare regolarmente a queste barbariche scuole di sopravvivenza.
Ma nella Svizzera del Meclemburgo – ribattezzata tristemente “Nazi-Toskana” da qualcuno – ci sono anche sacche di resistenza. Reinhard Knaack è il sindaco di Lalendorf, villaggio di 900 anime nascosto nei boschi. Sei anni fa si rifiutò di consegnare il premio del capo dello Stato a Petra Müller per il suo settimo figlio. Aria fricchettona, capelli intrecciati e gonna lunga, Müller è una nota neonazista. Veste alla maniera tipica delle econazi, delle colonizzatrici, come le donne tedesche dei secoli scorsi. Dopo il rifiuto, ci racconta Knaack nel suo piccolo ufficio, il sindaco si è ritrovato un gruppetto di teste rasate in giardino che lo minacciavano. Nazi vecchia maniera venuti a difendere una nota famiglia di Siedler, di colonizzatori. A conferma che la rete tra gli hitleriani, antichi e moderni, è invisibile ma c’è. E la cosa più inquietante, Knaack ce la racconta quasi sussurando: «È arrivata la polizia e prima di cacciarli ha preso le generalità di tutti. Nomi e cognomi. Guarda caso, quel rapporto è sparito». La polizia è connivente?, chiediamo. Knaack ci guarda negli occhi, poi annuisce lentamente: «Qualcuno sì».
Proseguiamo il nostro viaggio fino a uno dei villaggi più famosi del Meclemburgo colonizzato dai nazisti. Poco distante da Wismar, quasi sul Mar Baltico, c’è Jamel. All’ingresso del paesino di appena 38 abitanti, un cartello indica la distanza da Braunau am Inn, città natale di Hitler. E sul grande murale che adorna una fattoria sono dipinti un’inquietante famiglia “ariana” e l’Irminsul, il simbolo che abbiamo già incontrato molto più a sud, davanti alla casa del fabbro Krauter, nella “Nazi-Toskana”. In questo villaggio dall’aria tranquilla, i neonazisti sono riusciti negli anni a cacciare quasi tutti. Qui i colonizzatori sono ancora vecchia maniera, con look da skinhead e modi da teppisti. Ma la fattoria dei Lohmeyers, Birgit e Horst, resiste da anni ai loro brutali tentativi di cacciarli. Su 38 abitanti, 36 sono neonazisti. Loro due no.
Nella testa delle teste rasate, Jamel doveva diventare un modello, un villaggio purificato, “ariano” al cento per cento. E invece. Dopo anni di gomme bucate, inseguimenti, minacce, pressioni psicologiche, i due artisti continuano a resistere. L’anno scorso le teste rasate hanno persino dato fuoco al loro fienile, di fronte a casa. Per un pelo, non li hanno ammazzati.

I resti del fienile dei Lohmeyers, a pochi metri dalla loro casa a Jamel, bruciato dai neonazisti nell’estate del 2015 (Michele Princigalli)

L’occasione per andarli a trovare è un concerto antinazi che organizzano ogni anno, Jamel rockt den Förster. Ma, arrivati nel villaggio, la prima cosa che notiamo è un gruppo di teste rasate che dietro un recinto, proprio di fronte alla fattoria dei Lohmeyers, arrostiscono un enorme porco allo spiedo. Una scena medievale. Sullo sfondo, una montagna di immondizia che brucia. Gli hitleriani più estremisti come questi, rifiutando lo Stato, si bruciano i rifiuti da soli. Tre bambini giocano ad acchiapparella tra il rogo e un tavolaccio dove si sono riuniti una quindicina di skinhead che bevono birre. Ci avviciniamo, non riusciamo a estorcere agli energumeni rapati altro che parolacce irripetibili. Uno di loro, il capo della colonia bruna, è il noto ex skinhead Sven Krüger, ex esponente degli Hammerskin, poi consigliere locale del partito di estrema destra Npd. Si incammina verso di noi con una sorta di macete in mano. «Bugiardi, giornalisti di m… che cercate? Tornatevene da quella feccia comunista! Aria!».
Attraversiamo la strada e un prato, passiamo davanti al murale e tre volanti della polizia che presidiano i preparativi del concerto antinazi. È ancora presto, sono le sei di pomeriggio e Birgit Lohmeyer ci aspetta all’ingresso della fattoria. «Dopo tanti episodi brutti, finalmente è arrivato un capo della polizia che ci protegge» sorride. Che solitudine, quella dei Lohmeyers. Dieci anni fa il sindaco Uwe Wandel ammise: «Jamel è persa», ormai caduta in mano ai nazisti. Ma Birgit e Horst continuano a dimostrare che non è vero. Ci sediamo al tavolo della cucina con lei mentre lui si occupa degli ultimi dettagli prima del concerto. Birgit ci guarda negli occhi, i lunghi capelli rossi sciolti sulle spalle, lo sguardo indurito da anni e anni di assedio crescente. Chiediamo come fanno a resistere. «Come sempre. Un giorno alla volta. Il problema, al momento, è questo: Krüger ha appena fatto domanda per costruire altre quattro case. Dobbiamo prepararci ad altre quattro famiglie naziste». Per loro un incubo, per la Germania un’altra tappa del contagio.

Tonia Mastrobuoni  (Venerdì di Repubblica del 14 ottobre 2016)

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